Da qualche anno, Disney e Pixar stanno utilizzando il proprio potere comunicativo e la presa su un pubblico di bimbi e ragazzini per comunicare una nuova idea di società, per riscrivere i canoni sociali e culturali su cui si sono basate generazioni e migliorarli alla luce di come i costumi si evolvono. Per esempio, attraverso Cars e gli spin-off Planes stanno ridipingendo la figura dell’eroe maschile, del vincitore, di colui di cui tutti hanno bisogno esaltando il ruolo del gruppo e soprattutto la bellezza del farsi da parte, del rinunciare quando è utile.



Lightyear – La vera storia di Buzz prosegue questo compito partendo dal personaggio dell’astronauta di Toy Story e raccontandone l’origine (stando alla continuità della serie, questo sarebbe il film che il piccolo Andy vede quando decide di comprare il giocattolo), ovvero quella di uno Space Ranger che durante una missione esplorativa danneggia la tecnologia che avrebbe permesso al suo equipaggio di tornare a casa. Mentre i suoi compagni si adattano, lui cerca di riparare al suo danno, viaggiando all’iper-velocità cosicché 4 minuti per lui siano 4 anni per chi lo circonda. Di volta in volta, il tempo passa e dopo l’ennesima spedizione, trova il pianeta invaso da robot ostili guidati da Zurg e tutti i suoi amici morti. Dovrà confrontarsi ora con una nuova generazione di Ranger.



Diretto da Angus MacLane e da lui scritto con Jason Headley e Matthew Aldrich, Lightyear è un film d’azione animato, una space-opera che guarda nella grafica al mondo dei videogiochi e che cerca di trovare quell’equilibrio perfetto tra avventura, idee, divertimento ed emozione che ha retto la serie madre almeno per i primi tre film (ma anche il quarto, con tutti i suoi difetti).

Il film è di fatto un bignami di fantascienza per chi i classici ancora non li ha visti – ovvero i bimbi intorno ai 10 anni – e che può divertirsi a mescolare Star Wars e Alien con Battlestar Galactica, ed è un film che cerca di spostare l’attenzione dello spettatore dall’epica eroica dell’uomo solo contro tutti a quella di chi deve fidarsi degli altri, mettendosi al servizio del gruppo, tralasciando il dovere di essere un eroe e salvare il mondo – come dice Izzy al protagonista – che la società militarista ha imposto e di cui certo cinema è stato portavoce.



Lightyear allinea una serie di idee interessanti e personaggi simpatici (come il gatto robot Sox) e attorno a questi compone un racconto dal tono spiazzante, dal passo inusuale, troppo complesso per un bambino, troppo lasco per un ragazzino, che non porta a maturazione nessuno degli elementi su cui si fondava l’equilibrio di Toy Story, restando isolati l’uno con l’altro, poco amalgamati.

Anche dal punto di vista spettacolare e tecnologico, Lightyear è efficiente, ma mai memorabile, sembra il frutto di istanze incollate senza ispirazione e che non bastano a farne un film riuscito. Forse è sbagliato ragionare sugli incassi, ma se un prodotto creato da geni del marketing e della comunicazione come quelli di Disney-Pixar risulta il peggior flop della società (escludendo Onward, bloccato dalla sopraggiunta pandemia), qualcosa nell’ideazione deve aver fallito, il modo in cui hanno raccontato il personaggio, unito forse alla poca attrattiva verso il personaggio stesso fuori dall’home video (per cui erano stati creati già un film e una serie), non ha coinvolto il suo pubblico di riferimento. Ed è un peccato, visto il messaggio che si teneva a trasmettere.

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