Si infittisce il mistero che avvolge la morte di Liliana Resinovich, che ad oggi per gli inquirenti si sarebbe tolta la vita da sola. Ma nessuno, a partire dai parenti all’amioco speciale, Claudio Sterpin, voglio credere a questa ipotese. C’è un particolare di questa vicenda che balza all’occhio, una sorta di errore. Risulterebbe che siano state riscontrare sul corpo di Liliana Resinovich, nelle urine e nel sangue, tracce di 5- amino- acido salicilico e 8- idrossi-chinolina. Erroneamnete si era pensato che Lilly avesse assunto dell’aspirina in realtà si trattava di mesalazina, un farmaco predisposto alla cura di patologie intestinali. Non risulta da quanto riferisce il marito, come pure i medici, che Liliana Resinovich fosse affetta dal morbo di Crohn, quindi nei giorni prima di morire, almeno 36 ore prima potrebbe essere venuta a contatto con una persona che usava la mesalazina. Un tassello utile a capire, seguendo la strada indicata dagli inquirenti, dove si sia nascosta la povera Lilly nel periodo che va dalla scomparsa al ritrovamento. Però questa tesi del suicido, come dicevamo viene respinta con rabbia dagli affetti più vicini alla donna. Non c’è un solo riscontro obiettivo convincente per credere che Liliana Resinovich si sia tolta la vita. Lo sostiene Nicodemo Gentile, avvocato del fratello della donna, Sergio, da sempre convinto dell’inconsistenza del suicidio nel giallo di Trieste. I parenti della vittima respingono con forza lo scenario di un gesto estremo e portano avanti una battaglia per dimostrare che si è trattato di un omicidio e assicurare l’assassino alla giustizia.



L’intervento del legale è condensato in un duro post sui social nel quale si mettono in fila, uno dopo l’altro, gli elementi che renderebbero traballante la pista privilegiata dalla Procura che chiese l’archiviazione. Per i consulenti di parte, Liliana Resinovich non può essersi suicidata e non c’è nulla che porti a conclusioni diverse da quelle di una morte violenta per mano di un killer finora ignoto. Quarto grado torna oggi sul caso proprio con la linea seguita dall’avvocato dei Resinovich, il quale non usa mezzi termini nel dipingere la prima inchiesta come minata irrimediabilmente da errori grandi come una casa.



Nicodemo Gentile non ha dubbi: quella che va in scena nel giallo di Liliana Resinovich, dal giorno del ritrovamento del cadavere, il 5 gennaio 2022, è “la dolorosa girandola di un suicidio di plastica“. Secondo l’avvocato di Sergio Resinovich, la tesi del gesto anticonservativo non regge e il primo accertamento autoptico non avrebbe consegnato una ricostruzione valida perché viziato da gravi errori metodologici e “macroscopiche violazioni” dei protocolli che invece sono il fondamento imprescindibile di ogni investigazione scientifica che si rispetti.

Come sottolineò mesi fa il luminare della Medicina legale Vittorio Fineschi, consulente di parte, all’epoca del rinvenimento del corpo di Liliana Resinovich furono bypassate le regole fondamentali per isolare correttamente la scena e mettere in atto tutti i rilievi dovuti – a partire dalla temperatura del cadavere – con il risultato, ormai irreversibile, di un inquinamento che avrebbe inficiato gli accertamenti decisivi sulla morte. In pratica, tutto quello che non fu fatto allora, dal punto di vista strettamente medico legale, si traduce nella perdita di una preziosissima occasione per arrivare alla verità. Per Gentile, gli errori commessi in sede di prima indagine rappresentano un vulnus insuperabile e continuano ad alimentare una narrazione distorta della storia accreditando il suicidio come possibile scenario.