Dopo un anno di sospensione, L’Imprevisto di Pesaro – gruppo di centri e comunità per il recupero di ragazzi devianti e tossicodipendenti – ha vissuto sabato 4 dicembre la sua tradizionale “festa delle dimissioni”. Sette ragazze e sei ragazzi che hanno terminato il cammino di Comunità, in un grande teatro davanti a numerose autorità, ai genitori, a nuovi e vecchi amici, all’immancabile e insostituibile Paolo Cevoli, hanno reso testimonianza del faticoso e drammatico percorso di recupero e rinascita conquistato. All’inizio della manifestazione il presidente Silvio Cattarina ha tenuto l’intervento qui di seguito riportato.
I ragazzi delle nostre Comunità – i più belli del mondo – sono però anche ragazzi estremi: vivono o hanno vissuto situazioni e condizioni estreme, pericolose (un tempo venivano chiamati “i pericolanti”). In modo ingigantito, enfatizzato fanno capire, dicono, mostrano le vere, grandi questioni in cui si dibatte l’intero mondo giovanile.
Ci allarmano, con una impressionante dovizia di particolari, riguardo al fatto che dai giovani, dal mondo giovanile in genere, specialmente da alcuni strati di questo, sale un grido sempre più grande, un grido soffocato, sordo, talvolta sanguinante. Come è possibile che non lo si senta, che non ci si giri ad ascoltarlo, ad accoglierlo? Che anche le istituzioni, i servizi pubblici, i responsabili della cosa pubblica non facciano di più e meglio e in fretta affinché la situazione non degeneri in modo irreparabile? Prima che il deserto inesorabilmente avanzi.
La sofferenza, il dolore, il disagio sono sempre più diffusi, estremi, generalizzati; il vuoto che tanti ragazzi sentono è sconfinato: quanti sentimenti distruttivi, azioni dissolute e sconsiderate, spesso connotate da terrore, atrocità. Che abisso! Che calvario! Colpisce, inquieta che tanti ragazzi, interrogati sul perché delle azioni che commettono, affermino, offrendo tutti la stessa univoca risposta: “Niente vale la pena, tutto è male e dolore, non c’è niente a cui dare il nostro cuore”. Ancor peggio quando dicono: “Per un vuoto che ho dentro… per noia.”
La persona del giovane – anche quella dell’adulto – è sempre più fragile, la cifra della sua vita abitualmente è lo smarrimento, la sconfitta, la confusione perché in preda a tempeste interiori ed esteriori dentro le quali non sa dibattersi e districarsi… Insomma è attorniata da un buio senza fondo per cui il cuore smette di battere, l’anima e il corpo si spezzano.
Ma io ho visto, in tanti anni di vicinanza e di compagnia ai giovani, ho scoperto che se guardiamo, se ascoltiamo la sofferenza, talvolta anche il male, vediamo che nascono parole che hanno una forza, una dignità, una bellezza, una densità evocativa sorprendente. E dalla parola, da una parola vissuta insieme, “lavorata insieme” nasce, ritorna la vita. Si può ricominciare, cambiare.
E’ necessario però immedesimarsi con l’umanità sconsolata, lacerata, sconfitta dei ragazzi. Bisogna lasciar nascere in noi una contemplazione, una venerazione, bisognerebbe sempre stare a guardare in silenzio.
Insomma, occorre lasciarsi ferire, lasciarsi colpire, svuotarsi per lasciarsi colpire, dare voce a queste oscurità dell’animo, avvicinarsi con occhi umani, per dare spazio a questo grido, a questi bisogni, a questi combattimenti, per esplicitarli, per tradurli, decodificarli, per dischiuderli. Ci vuole rispetto e umiltà, semplicità verso i piccoli, verso chi è nel bisogno e nel limite! E verso di essi rapportarsi con fermezza, con decisione, serietà e severità: chiedendo tanto e tutto, altrimenti è come se non dessimo loro valore, non riconoscessimo in loro il potenziale che ogni ragazzo sicuramente è. Scommettiamo di nuovo sui ragazzi! Non lasciamoli dentro una trascuratezza e trasandatezza opprimente.
Anche perché, prima o poi, la stessa sofferenza, lo stesso dramma, lo stesso pianto toccherà pure a noi – anche a me e a te, a tutti. Il dramma che i giovani vivono è semplicemente un’anticipazione, un’amara, cruda e amplificata prefigurazione di quel che succederà a tutti, a tutto il mondo. Lo diceva una nostra cara ragazza: “E’ come se noi fossimo chiamati a soffrire così tanto affinché altri possano accorgersi, capire, cambiare. Siamo chiamati ad un sacrificio, ad immolarci per tutto il mondo”.
La sofferenza non è una condanna, una inevitabile predestinazione: è un invito a capire, ad imparare, a cambiare, ad aiutarsi, a volersi bene. La grandezza della fragilità, della vulnerabilità sta nella chiamata che implicitamente comporta, nell’invito a risalire, a riscattarsi, a costruire. Per aprirsi all’imprevisto (non noi, quello vero e grande, noi siamo solo un piccolo segno, spero).
I giovani sono pieni di paura e di insicurezza, anche perché noi adulti siamo stracolmi di paura e di insicurezza, ma se stiamo con i ragazzi la paura cessa, se ne va. Se stiamo vicini, davanti, se stiamo in modo vero e forte, con speranza, con i ragazzi la paura scappa via. Mia mamma, i primi lunghi anni, mi diceva: “Ma non hai paura a stare con quei ragazzi?”. Io rispondevo: “Sì, ce l’ho, ma se sto con loro mi passa!”.
Sì, nel mondo dei ragazzi ci sono tanti problemi, molte difficoltà, ma chi ti impedisce di guardarli con verità, con uno sguardo semplice, vero, libero. Chi ti nega di avvicinarti con uno struggimento che ti scoppia in petto, di volergli bene! Chi te lo impedisce? Chi ti impedisce di abbracciarli, di incontrarli, di chiamarli, di chiamarli per nome, di offrirti come aiuto, come riferimento; chi ti impedisce di commuoverti?
Il bene che un adulto fa ad un giovane non morirà mai. Resterà per sempre, rimarrà per sempre. Ogni parola, gesto, ogni sguardo dell’adulto verso un giovane scende nel suo cuore e produce un frutto insperato, imprevisto, un cammino, un lavoro. Quando è ora queste parole e gesti torneranno su, torneranno indietro con risultati centuplicati. Il tesoro più grande di una società sono sempre i giovani.
La vita è un appassionante cammino di bene, di amore. Perché tanti non lo capiscono o non lo vogliono vedere, non se ne accorgono?
La grande meraviglia, la sorpresa più sorprendente è il bene! Questo scoprono i ragazzi delle nostre comunità, questo scoprono i ragazzi che sono avvicinati e guardati con interesse, con speranza, con fermezza. Scoprono che il dato più rilevante della realtà non è il male – come dicevano un tempo – ma è sempre il bene!
Quante volte, durante il percorso di comunità, abbiamo sentito affermare: “Sono buono, ho sentimenti belli, teneri, pensavo di essere cattivo e invece guarda qui”.
Dalla sconfitta, dall’errore più straziante, dal dolore più accecante nasce, può nascere, se rispettiamo e onoriamo il mistero del dolore, ossia il mistero dei giovani, l’amore alla vita.
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