Hetzbollah in Libano, Hamas a Gaza, Houthi nello Yemen, guerriglieri proxy in Siria e in Iraq. Il processo di infiltrazione iraniana per l’estensione della sovranità e dell’influenza extraterritoriale dura da decenni, un tentativo di de-sunnizzazione portato avanti da un network di milizie e attori ibridi sciiti, legati alle forze Quds, la sezione del Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (una delle tre Forze armate dell’Iran), unità speciali e di intelligence, responsabile delle operazioni al di fuori del Paese, sostanzialmente proiezioni regionali a carattere terroristico e anti-Israele. Il tutto mentre entro i suoi confini l’Iran continua nella negazione di ogni diritto civile – soprattutto quelli delle donne –, nelle esecuzioni di chi non aderisce all’ortodossia, nelle prigionie senza fine (perfino del premio Nobel per la pace, Narges Mohammadi), e nella corsa per ottenere materiale fissile di qualità militare sufficiente per produrre un ordigno atomico, un punto cruciale sul quale ogni trattativa di limitazione già avviata con l’Occidente oggi è di fatto bloccata.
L’Iran sembra essere la madre di ogni conflitto nel Vicino-Medio Oriente, con spinte ideologico-religiose, forniture di armi e logistica, pianificazioni di attività, e mire espansionistiche che non nascondono la volontà di diventare lo Stato di riferimento di tutto il quadrante, una potenza nucleare con la quale si dovrebbe fare i conti. Con un trionfo finale della variante sciita duodecimana (o imamita) dell’islam, una religione di Stato (quella che riconosce una successione ininterrotta di dodici imam, in un distinguo – poco comprensibile per il resto del mondo – con le altre anime musulmane).
Fin dalla crisi degli ostaggi, nel 1979, con l’invasione dell’ambasciata Usa a Teheran da parte degli “studenti” rivoluzionari, con l’esilio dello scià Reza Pahlavi e con l’ascesa degli ayatollah, era abbastanza delineata la nuova postura che si andava imponendo nel Paese dei 90 milioni di anime, metà delle quali donne obbligate alla hijab. Eppure, prima l’accettazione della politica iraniana quale argine alle intemperanze irachene, poi una realpolitik sempre sensibile alle forniture petrolifere, hanno fatto sì che negli anni quelli che si promuovevano come guardiani del mondo, gli Stati Uniti, finissero per distrarsi in altre parti, di fatto abdicando all’intelligence israeliana il controllo sull’avanzamento iraniano nei progetti atomici. Con un ridicolissimo balletto di sanzioni – puntualmente superate con triangolazioni commerciali giocate con Stati di supporto, come Russia (anch’essa sotto sanzioni), Venezuela o Turchia –, congelamenti poi scongelati di capitali o crediti iraniani all’estero, limiti sulle percentuali di arricchimento dell’uranio, ogni volta rivisti al rialzo (si partì con un 4%, e si è arrivati da parecchi mesi all’84%, subito al di sotto della soglia del 90%, necessaria per la produzione della bomba).
“Il ruolo dell’Iran va chiarito. È impensabile credere che un Paese che butta benzina sul fuoco laddove vi è una miccia possa continuare ad agire in modo indisturbato. Lo dico pensando al contesto mediorientale, al conflitto per procura con Israele, e lo dico pensando al contesto delle tensioni nel Mar Rosso”: sono dichiarazioni del ministro della Difesa Guido Crosetto. Per un Crosetto che parla, però, sono tantissimi, troppi, i suoi colleghi a condividere ma rimanere in silenzio.
Il fatto è che, sanzioni o non sanzioni, nel 2021 (ultimo dato disponibile) l’Iran ha registrato un rapporto commercio/Pil del 59,1% e il commercio di merci ha rappresentato l’88,2% del commercio totale. Nello stesso anno le esportazioni di merci dell’Iran sono aumentate del 52,7% e le importazioni sono cresciute del 26,4%. Per la Repubblica islamica un saldo nettamente positivo. Il principale partner commerciale dell’Iran è stata la Cina, che rappresenta il 44,6% delle sue esportazioni e il 28,9% delle sue importazioni. Il 2,5% delle esportazioni dell’Iran e il 23% delle importazioni dell’Iran in valore sono state scambiate con gli Emirati Arabi Uniti, il suo secondo partner commerciale. Dunque, gli affari sono affari, i petrodollari contano, e più che l’onor può il business.
L’ingenuità americana, unita ad una pericolosa mancanza di comprensione delle culture orientali, ha portato così i guardiani del mondo ad illudersi di poter vivere godendo della loro rendita di posizione, fatta di dollari e portaerei. I fatti però dimostrano che non basta più: se davvero si vuole mantenere l’ordine democratico mondiale occidentale, è sempre più necessario non un’esportazione forzosa di quel valore, ma un confronto basato su diritti, cultura, economia, condivisione, che faccia emergere l’obsolescenza di modelli dittatoriali intransigenti, che spacciano i loro farneticanti disegni di potere come necessari alla popolazione per conquistare una felicità terrena o addirittura post mortem.
Occorre superare la fase portaerei, insomma, o comunque prevedere che dopo le portaerei non si possono lasciare territori e popolazioni al loro destino. Basta ricordare la fatidica frase di George W.Bush “abbiamo vinto la guerra e ridato all’Iraq la sua libertà”: sono passati vent’anni, e l’Iraq è oggi in una situazione a dir poco disastrosa. Idem in Libia, idem nei Balcani, idem, o peggio, in Afghanistan. Oggi, desolatamente, si continuano a sopportare situazioni simili, si manda una task force navale nel Mar Rosso a difendere i convogli dai missili lanciati dagli Houthi filoiraniani dello Yemen, un’altra task force a difendere le coste israeliane dai missili dei terroristi filoiraniani di Hamas, si armano le difese israeliane nel nord contro i razzi dei filoiraniani libanesi Hezbollah. Ma il problema, si sa, resta insoluto, pericolosamente a monte.
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