L’occupazione sicura e adattabile ai tempi e ai lavori nuovi è, come noto e “giusto”, uno dei principi fondamentali del pilastro europeo dei diritti sociali che si propone di garantire pari condizioni di lavoro indipendentemente dalla durata e dalla tipologia dei contratti dei lavoratori, consentendo, al tempo stesso, ai datori di lavoro una flessibilità, sufficiente e “adeguata”, per adattarsi, anche loro, ai cambiamenti economici e allo sviluppo delle imprese. Il piano d’azione per l’implementazione del pilastro europeo dei diritti sociali, in questa prospettiva, comprende azioni dedicate al lavoro temporaneo e alla transizione delle persone verso tipologie contrattuali più “sicure” e stabili.



In questo quadro una specifica raccomandazione della Commissione europea dedicata alla necessità di rendere maggiormente efficaci le misure di sostegno attivo all’occupazione a seguito della crisi del Covid-19 scommette sulle nuove opportunità di miglioramento delle competenze e di riqualificazione, nonché di miglioramento della qualità dei servizi per l’impiego, per contribuire a raggiungere l’ambita stabilità dei rapporti nell’interesse sia dei dipendenti che delle imprese.



Un recente studio, pubblicato nei giorni scorsi, di Eurofound evidenzia, riflettendo su questa tematica, come il lavoro “temporaneo” tenda ad essere, ahimè, nella gran parte dei casi, involontario e venga svolto, nella maggior parte dei casi, da giovani, uomini e stranieri. Anche le persone con livelli di istruzione più bassi hanno, normalmente, maggiori probabilità di avere contratti a tempo determinato, che sono diffusi tra i professionisti di settori strategici come l’istruzione e la sanità. Emerge poi come i lavoratori “flessibili” spesso lavorino con orari particolarmente lunghi rispetto alla media e, a livello personale, si sentano sotto-occupati e “precari” e, comprensibilmente, cerchino costantemente altri lavori, ovviamente, più stabili.



Dal punto socio-politico, le persone con contratti non permanenti credono che il loro lavoro sia meno “sicuro”, hanno generalmente una minore fiducia negli altri e sono meno propense a pensare che gli altri siano onesti. I lavoratori “precari” e i lavoratori “in nero” sono, generalmente, meno soddisfatti del funzionamento della democrazia nel loro Paese.

Questi cittadini così come i disoccupati hanno, quindi, meno probabilità di votare alle elezioni. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli stranieri “non idonei al voto” perché non in possesso della cittadinanza che sono, ahimè, sovrarappresentati in queste categorie. Così come è anche meno probabile che queste persone partecipino alle manifestazioni sindacali manifestando, anzi, un certo disimpegno.

La soluzione a queste criticità, tuttavia, non può essere, come immaginato anche da una nuova proposta di referendum della Cgil per “abolire” il jobs act renziano, quella del ritorno al passato ed al mondo del lavoro del tempo che fu con l’articolo 18 per tutti. Tempi nuovi chiedono soluzioni nuove che sappiano tenere insieme lavoro, welfare e democrazia come ci ricorda anche la nostra Costituzione. È tempo, quindi, di immaginare, ad esempio, nuove modalità di partecipazione alla cosa pubblica per le tante (troppe) persone “precarie” nel lavoro e nella vita, la cui esclusione rende la nostra democrazia un po’ più fragile per tutti.

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