Style=”text-align: justify;”>La Cgil è partita per suonare ed è tornata suonata. Voleva radunare il mondo intorno a sé, e si è trovata sola come una ladra.

Era già accaduto sulla vicenda dell’Alitalia con il noto rifiuto di firma sull’accordo con la Cai (con dietrofront poco dignitoso). Ora Epifani ci riprova con una tigna da ultimi giorni di Pompei, giocando il tutto per tutto sull’università.

Sciopero, rifiutando ogni dialogo. È come se cercasse di fermare la ruota della storia, cercando di cavalcare la famosa Onda, dove ritrovare linfe giovani visto che la maggioranza degli iscritti al suo sindacato sono pensionati.

Ma questa scelta di Epifani ci aiuta a capir bene che la citata Onda è una onda di riflusso e di risucchio, che non pulisce la spiaggia ma serve a impedire alle belle vele di andare al largo.

Un’onda di pirateria insomma che vuole impedire a chi ha desideri ed energie di uscire dal porto, fosse pure attraverso mosse violente: come chi voglia sfuggire alla realtà, non vederla, sognare l’utopia del passato.

La Repubblica ieri ha pubblicato un articolo di Massimo Giannini in cui ci sono un paio di frasi interessanti: «La crisi morde più duramente i ceti meno abbienti, che vanno difesi con tutti gli strumenti possibili. Ma è ormai chiaro che molti (tra gli ultimi, i penultimi e comunque i più deboli) sono fuori e lontani dal perimetro della rappresentanza confederale. E dunque le piattaforme rivendicative e le “azioni di lotta” di Cgil, Cisl e Uil, tanto più se frammentate e contraddittorie tra loro, finiscono per assumere una fisionomia fatalmente corporativa, che spesso tutela chi è già tutelato e magari lascia scoperto chi non gode di alcuna protezione sociale».

Giannini mette nello stesso sacco i tre sindacati, ed è dunque ingeneroso verso Cisl e Uil, ma coglie il segno. I sindacati difendono se stessi, la loro posizione sociale. Tali e quali i baroni universitari che vogliono garantirsi attraverso il movimentismo degli studenti il mantenimento dello status quo.

Un sindacato che ha perso il contatto con la realtà, non riconosce più i veri bisogni, e finisce per impazzire. L’ira di Epifani è quella di un uomo che non sa rassegnarsi alla fine di un mondo. Non c’è di mezzo la difesa delle classi più deboli, ma la volontà di puntellare l’ideologia pansindacale. Da cui l’impopolarità crescente.

Anche i vergognosi attacchi personali al ministro Gelmini culminati nell’insulto infame di Andrea Camilleri («Non è un essere umano») contribuiscono alla frana del consenso, perché di fatto la Cgil copre questa deriva da guerra civile verbale e simbolica, che può tracimare facilmente in violenza conclamata. Come dicono anche gli scontri alla stazione Centrale di Milano.

A Genova ci sarà una processione con un fantoccio alto quattro metri con la effigie della Gelmini, e che alla fine sarà bruciata come una strega. La Repubblica scrive: «Una processione irriverente». Irriverente? Chiunque capisce che è un atto odioso e incivile. Tutto questo erode consenso perché l’Italia resta alla fine un Paese che non sopporta i linciaggi.

Una linea, quella di Epifani che punta a egemonizzare la piazza a dispetto di una qualsiasi formi di dialogo, che è elogiata solo dal Manifesto, non a caso il giornale sotto la cui testata campeggia “quotidiano comunista”, che scrive: «Meglio soli». Che a pensarci è lo slogan consolatorio dei perdenti.