La manifestazione di piazza Navona era partita per suonare il governo ed è tornata suonata. Accade così quando si pretende di ergersi a custodi esclusivi della morale e della giustizia. Non c’è stato nulla di più squallido, proprio dal punto di vista della morale e del codice penale, della orribile parata di dipietristi e grillini, radunati anche dal tamburo suonato incredibilmente da “Repubblica” che ieri ha cercato di fare un po’ marcia indietro per non screditarsi.
A piazza Navona si è palesata la cultura trainante della sinistra oggi. Se negli anni scorsi essa era stata egemonizzata dalla sinistra estrema, segnata da antiamericanismo e pacifismo di stampo guevarista, adesso vince lo sfascismo di tutto e di tutti, l’idea che chiunque non sia dei nostri è una feccia meritevole di linciaggio. Impressiona vedere personaggi intelligenti come Parisi e la Binetti, cattolici e moderati, farsi contare tra i partecipanti di questo raduno tenuto insieme dall’oscenità e da un odio così grossolano da imporre di dissentirne persino a gran parte dei suoi sostenitori di un’ora prima. Martedì non si sono bruciate più le bandiere americane o israeliane: si è passati al vituperio diretto delle persone, al furto della loro reputazione.

In un certo senso, la manifestazione di martedì è stata utile. Fa capire il discrimine che c’è in Italia tra barbarie e convivenza civile. Impone quindi ai democratici, ed in primis a Veltroni e ai suoi principali collaboratori, di rinunciare all’alleanza con chi usa l’arma della trucidazione dell’immagine dell’avversario politico.
Purtroppo non ci sono segnali incoraggianti. Furio Colombo e Antonio Di Pietro – così come il giornale di riferimento: l’Unità – hanno preso le distanze solo dagli attacchi a Napolitano e Veltroni. Come dire che invece spargere acido muriatico sul prossimo va bene, ma dipende da chi sia questo prossimo. Per cui il limite posto non pare essere quello del metodo, ma solo del bersaglio.
Più che mai, è bene che si riprenda un dialogo operoso. In Parlamento e fuori. Ricordando che la questione prima è il bene di questa Italia e del suo popolo. Cosa ci guadagna dall’aggressività ad personam contro il premier? È un calcolo di bassa lega. Lo scatenarsi di spiriti animali alla fine colpisce chi pensava di dirigerli per i propri scopi. Il maestro di Di Pietro e dei giustizialisti, Robespierre, specialista di ghigliottina, finì lui stesso sotto la lama. Veltroni ha già cominciato a esserne ferito, nonostante abbia cercato di vellicare la bestia per ammansirla e gestirla contro Berlusconi.

In Parlamento però abbiamo assistito ad una bagarre simile. L’accusa rivolta ad esempio da Dario Franceschini a Berlusconi e Fini è di volersi garantire una specie di impunità, in contrasto con la Costituzione e con l’uguaglianza dei cittadini. Applauditissimo dai democratici e dai dipietristi il vice di Veltroni ha così rivelato la dipendenza nefasta della sinistra dal partito dei pm, e dalla loro pretesa di essere gli unici depositari del bene della Patria. In questo senso la manifestazione di piazza Navona dei grillini e dipietristi e i discorsi dei capi del Partito democratico alla Camera sono della stessa stoffa abrasiva. Dicono di essere fatti in difesa della Costituzione, e nel sacro nome dei padri costituenti si oppongono al cosiddetto Lodo Alfano che garantisce l’immunità (temporanea) per le quattro più alte cariche dello Stato. In realtà costoro sono esattamente contro quell’equilibrio tra poteri e ordini dello Stato che la Carta ha voluto e poi è stata travolta dal terremoto golpista di Mani pulite.

Per capirsi basti considerare il perché nella Costituzione furono proprio i padri a metterci l’articolo 68 che affermava l’immunità per tutti i deputati e i senatori. Una immunità che impediva persino, salvo autorizzazione della Camera di appartenenza, addirittura l’indagine su un parlamentare. La storia di quell’articolo è semplice e illuminante. Sia i comunisti di Togliatti sia i democristiani di De Gasperi erano perplessi rispetto alla totale autonomia dei pm dall’autorità politica. Ma fu voluta alla fine da entrambi gli schieramenti, in età di guerra fredda, e di incertezza sull’esito elettorale per garantirsi reciprocamente da colpi di mano. Bisognerebbe leggere a questo riguardo il libro “1947” di Giulio Andreotti, che racconta come il capo del Pci, Palmiro Togliatti, forte dell’esperienza di ministro di Grazia e Giustizia, mostrasse molte preoccupazioni per lo status di assoluta indipendenza dagli orientamenti della politica assegnato ai magistrati. A questo punto, dinanzi al potere di fatto discrezionale delle Procure, l’articolo 68 fu scritto e votato come contrappeso necessario in piena linea con le tradizioni democratiche britanniche.  Il senso è chiaro: impedire l’interferenza di un organo non eletto sui risultati delle elezioni. A Mani Pulite regnanti, un Parlamento intimidito offrì su un piatto d’argento la sua testa, eliminando l’immunità e depotenziando radicalmente l’articolo 68 e la facoltà delle Camere di decidere sul destino giudiziario dei suoi componenti, salvo l’autorizzazione richiesta per gli arresti in corso di indagine e per le intercettazioni.

Solo chi è in malafede e conta sul lavoro di magistrati politicizzati può opporsi a norme che restituiscano almeno ai massimi livelli dell’istituzione la garanzia di non essere in balia di bande togate fuori controllo. Dovrebbe semplicemente tornare il buon senso. Sarebbe addirittura il caso di ripristinare l’articolo 68, in nome dei Padri costituenti, che forse non devono essere fatti valere solo quando fa comodo.