Il romanzo postumo di Oriana Fallaci è esso stesso un cappello pieno di ciliege, come dice il titolo (Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege. Una saga, Rizzoli, pp. 862, euro 25). Significa assaporare non delle parole, ma il sapore delle cose e delle storie umane che le parole raccontano. Di solito non accade più. Di solito le parole sono le parole, la letteratura è la letteratura, e la vita degli uomini scorre accanto, e al massimo cerca dalla letteratura e dalle parole un momento di divertimento, un’uscita dalla noia dell’esperienza quotidiana intesa come insopportabile, giostra che non va da nessuna parte.
Per fortuna c’è questo libro. Un libro che ci costringe ad affacciarci non sui ghirigori, ma sulle domande centrali di cui siamo fatti e che aspettano risposte. Oriana dice: non ce ne sono, di risposte. Dio è un’illusione, un’invenzione. Ma le domande sono reali, realissime. E in ogni pagina esse palpitano, nelle varie arcavole e nei vari arcavoli che si flagellano nelle processioni o bestemmiano sgangheratamente c’è quest’idea formidabile per cui ogni istante non è oro gettato nei tombini, ma una preziosità enigmatica, che chiede soccorso a un Dio che ella non vede e anzi nega, ma è continuamente interrogato, invocato, desiderato.
In breve e malamente (perché 862 pagine non si possono racchiudere in poche frasi), la Fallaci narra la storia della sua famiglia. Non lo fa perché era tenuta da un contratto, o per la curiosità legittima ma superficiale per cui cerchiamo di risalire alle sorgenti del nostro Nilo. Ella si è trovata un giorno aggredita dall’Alieno, il cancro. Ha visto la morte. E allora si è domandata: perché sono nata? Solo per morire e diventare niente? Oriana non riesce ad accettare questo destino. E allora prova a vedere se esiste una traccia di significato definitivo sperduta come una perla tra le pieghe di qualche vestito di un suo antenato.
È fantastico come lei restituisca il gusto della ribellione, la passione della libertà di chi le ha trasmesso i propri geni e particelle di dna. L’ava che cerca di afferrare per il collo il despota Napoleone. Ma anche il profumo delle pernice e dei conigli in salmì con il vino a fiumi offerto a tutti quanti volessero partecipare alla festa di nozze dei suoi progenitori.
Il libro non è cristiano, perché il massimo della cultura del Novecento – tranne pochissime eccezioni: Péguy, Claudel, Elliot, Testori, Rebora, Giussani, Balthasar, Wojtyla, Ratzinger – è di essere religiosa, non cristiana. Lo disse don Giussani quando ricevette, nell’ottobre del 1995, la medaglia d’oro della cultura cattolica a Bassano del Grappa. Manca la certezza pacificante e drammatica del Dio incarnato. Ma è incomparabile il dono di chi toglie le catene ai lettori e li butta nel fuoco delle domande fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dio dove sei?
Oriana Fallaci è questa domanda resa carne e ciliegie. La sua negazione di Dio è persino puerile, infarcita com’è del razionalismo che ella contraddice con l’andamento tragico e trepidante delle sue pagine. La scrittrice fiorentina (anzi “lo scrittore di Firenze” come ha voluto fosse scritto sulla sua tomba) quando teorizza resta incastrata in un concetto di ragione dov’è tagliata via la domanda religiosa, si nutre di materialismo volgare di tipo ottocentesco. Ma lei è , quando racconta, infinitamente più profonda di queste barzellette da positivismo alla Auguste Comte o da hegelismo stantio alla Feurbach di cui pure si nutre.
Ho avuto modo di discutere con lei della sua idea per cui Gesù è stato il massimo filosofo della libertà, una specie di Socrate ebreo, tradito poi dai suoi apostoli che hanno inventato la Chiesa per tiranneggiare la gente. Lei ascoltava attentissima quanto avevo imparato e vissuto attingendo all’amicizia con don Giussani. Poi ha avuto modo di restare sorpresa per l’umanità acutissima e di diventare alleata di papa Ratzinger nella sua battaglia contro il nichilismo. E di voler essere accompagnata dal vescovo Fisichella sull’estrema soglia della vita.
Il suo ultimo capitolo non scritto (ha interrotto la stesura del romanzo, che lei chiamava “figlio”, l’11 settembre 2001) racconta di lei che desidera morire avendo negli occhi la cupola materna di Santa Maria del Fiore, con il suono delle campane a dirle quella parola che desiderava credere.
Grande Oriana, dunque. La si legga imparando il gusto della bellezza, avendola in mente con quei suoi occhi tesi al significato di tutto, incantata dal sorriso di un Papa che le ha voluto bene.