La mossa di Veltroni per dare il diritto al voto amministrativo agli immigrati è una trovata da quattro soldi dal punto di vista politico. Però bisognerà pensarci sul serio.

Mi spiego. La strumentalità è palese. Veltroni non presenta una proposta di legge. Non convoca il suo partito per chiamarlo a decidere sulle priorità. A freddo cosa fa? Cerca di mettere in difficoltà il centrodestra. Usa una affermazione di Gianfranco Fini, favorevole al riconoscimento di questa facoltà, non per ottenere lo scopo di far votare gli immigrati e quindi di aiutarne l’integrazione, ma per mettere Fini in contraddizione con se stesso, o più probabilmente per farlo litigare con i leghisti e con i suoi stessi deputati aennini.

Infatti, ognuno capisce che non è questa la priorità di cui oggi il Partito democratico possa far valere per mostrare la sua pertinenza storica. Le amministrative sono lontane. Il Parlamento è intasato da urgenze d’altro genere. La legge elettorale in discussione è semmai quella europea. Dunque il problema di Veltroni non è di far votare gli stranieri, ma di catturare qualche consenso in più al suo stesso interno.

Dal punto di vista liberale, la presa di posizione di Fini fu allora perfettamente corretta. E così oggi la richiesta di Veltroni dice la verità dal punto di vista del diritto formale. La questione è quella dell’opportunità politica e dell’utilità del voto – in questa situazione – per gli stessi immigrati. Con ogni evidenza se uno versa le tasse nel posto dove risiede ha diritto di esprimere il voto per scegliere chi amministrerà quei denari. È un principio liberale. Non si deroga dai principi.

La ragione di perplessità è un’altra. Oggi l’immigrazione è caratterizzata da ondate etniche. Si concentrano in un paese centinaia di persone che spesso fanno comunità a sé. Il diritto di voto amministrativo farebbe di queste comunità l’ago decisivo della bilancia. Sarebbe una lobby formidabile in grado di condizionare per ragioni extra-politiche la costituzione dei consigli comunali.

Faccio un esempio, per capirci. Desio è la mia città. Ha 38mila abitanti. C’è una comunità pachistana che oggi potrebbe depositare nell’urna più di 500 schede. Questa comunità lavora, non dà preoccupazioni quanto a reati: ma è totalmente separata, le famiglie trasferiscono le bambine in patria appena manifestano troppo amore per i costumi italiani o semplicemente vogliono proseguire il cammino scolastico. Questi 500 pachistani obbediscono al loro leader, è un fatto noto. Possiamo permetterci di lasciar scegliere loro il coloro dell’amministrazione prossima? Sulla base di quali criteri? Non si sa.

In queste condizioni occorre forse un approccio più lento alla questione del voto. Magari istituire per prova una presenza consultiva, un diritto di tribuna. In caso contrario si potrebbe generare un vulnus alla pace sociale. Crescerebbe in molti settori un’incomprensione verso lo straniero, accusato di invadere non solo il territorio ma anche la nostra democrazia.

Come si vede, spesso tra il diritto formale e la sua onesta applicazione c’è di mezzo il buon senso. Ma Veltroni di queste faccende non si interessa. Gli importa mettere in difficoltà l’avversario politico. E che l’Italia vada pure a ramengo.