«L’impegno della Chiesa è fondamentale per la società – ha detto il presidente Napolitano -. Tante volte la religione è un fatto pubblico e l’impegno della Chiesa nella vita sociale è essenziale anche da un punto di vista della società civile». Le dichiarazioni del capo dello Stato sono bellissime. Ma sono anche orribili. Sono bellissime perché stabiliscono il corretto rapporto tra Stato e Chiesa, mostrano come sia stato perfettamente recepito perché insito nella buona tradizione della Repubblica italiana, l’invito proposto da papa Benedetto XVI a considerare questo tempo come quella di una “sana laicità”. Stato e Chiesa non solo rinunciano a qualsiasi ostilità reciproca (libera Chiesa in libero Stato, una formula che può anche segnare l’indifferenza, ma anche la sottomissione della Chiesa che deve accettare i confini dello Stato, è come costretta a vivere immersa in esso), ma collaborano, hanno di mira entrambi l’affermazione del valore della persona come “core business”. Senza confondere i piani.
Lo Stato crea l’ambito in cui gli uomini possano obbedire al desiderio di infinito che ultimamente li definisce, e che si esprime nel moto della libertà (il senso religioso mette insieme le persone). Ma lo Stato non può proporre percorsi per la piena realizzazione di questo desiderio, non può pretendere per se stesso il rango di macchina della felicità. Quando lo fa esso esce dalla sua natura, si trasforma in Leviatano, arriva a sostituirsi a Dio, ingigantendo Cesare come una Rana Sacra. Uno Stato siffatto, anche quando scegliesse come legge della propria dinamica la religione cattolica, verrebbe a negare ciò che è l’essenza del fatto religioso: la libertà. Intesa come libertà di ciascuno di aderire o no a una proposta di realizzazione di sé. Nessuna religione di Stato infatti è consentita. Sarebbe una prigione per la persona (se non aderisci a quella religione sei un di meno, sei un cittadino discriminato), e una prigione (una catena d’oro) per la religione, la quale diventerebbe di (genitivo possessivo) Stato, cioè dello Stato.
Il cristianesimo è profondamente ostile per sua stessa natura alla clericalizzazione della Res Publica. È appena nato e Gesù Cristo stabilisce la regola decisiva della “sana laicità”. “Rendete a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”. Questa affermazione non segnala una separazione degli ambiti. Ma per la prima volta stabilisce che Cesare non è Dio, non ha il potere di sostituirsi al Mistero. Già i Greci avevano scorto l’incommensurabilità del Fato. L’avevano però dichiarato fuori portata dalla religione; il Dio ignoto di cui parla san Paolo è come posto fuori dal rango dell’amministrazione della religione.
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Il principio di libertà dell’individuo in materia di scelte decisive si chiarisce appena dopo l’Ascensione di Cristo, quando negli Atti degli apostoli, dinanzi al Sinedrio, Simon Pietro stabilisce una volta per sempre il primato della coscienza: “è meglio obbedire a Dio più che agli uomini”.
Ma l’autorità viene da Dio, il cristiano la riconosce. La serve quando essa non pretenda di essere adorata come criterio supremo del bene e del male. L’incenso all’imperatore come riconoscimento della sua natura divina è sacrilegio, perché consacra un’usurpazione. Ma l’imperatore (leggi: l’autorità civile comunque si esprima nei secoli) è garante magnifico di questa prerogativa umana, che è quella di cercare Dio, il quaerere Deum di San Benedetto, fattore massimo di civiltà.
Per questo, perché è inscritto nella sua storia, la Res publica italiana (anche prima che si desse forma di Stato unitario) è veramente se stessa quando onora chi le ha permesso di costituirsi in civiltà. E cioè quando ha sostenuto l’homo religiosus, l’homo viator verso il destino, l’uomo che cerca Dio, e lo cerca ogni istante anche quando questo Dio si è fatto incontro a lui.
Tutto questo oggi significa principio di sussidiarietà. Vale a dire corretto confine tra struttura politico sociale e libera iniziativa di persone e famiglie che si uniscano per rispondere insieme a quell’imperativo benedettino del quaerere Deum nel concreto delle ore e dei giorni. In Italia questa dimensione religiosa ha la sua forma storica nel cattolicesimo, con le sue comunità, con la sua comunione gerarchica. Attaccare la Chiesa nei suoi pastori significa toccare un punto decisivo di libertà. Non è una mancanza di bon ton, è un’offesa pura e semplice anche allo Stato. Questo significa la richiesta di Napolitano perché sia rispettata la Chiesa.
E veniamo al motivo per cui queste dichiarazioni del presidente della Repubblica sono orribili. Lo sono perché si sono rese necessarie a causa dell’aggressione di un ministro della Repubblica italiana contro l’arcivescovo di Milano. Definirlo “imam di Milano” significa qualificarlo come traditore del cattolicesimo. Insinua l’idea che chi è cattolico o no, che cosa sia tradizione cristiana oppure no, non lo stabilisce la Chiesa ma una forza politica, che si arroga il diritto di anatema.
Siamo fuori dello Stato di diritto. Siamo alla religione di Stato, una specie di cattolicesimo dove il capo della Lega fa pure da Papa. Dio ci scampi. E Berlusconi corregga un simile scempio.