Ho in mente le visite di Giano Accame al “Sabato”. Veniva di pomeriggio, ci spiegava Ezra Pound, ce lo raccontava in gabbia, poeta grandissimo da lui adorato, non sopportava che i poveri soffrissero per colpa dei potenti della finanza, aveva una dolcezza infinita aliena da ogni rancore, pregiudizio, superbia. Ci voleva bene, eravamo di un’altra parrocchia, ma in realtà no: era uno di noi. Non si metteva né sopra né sotto, era umile. Era stato un fascista, e non aveva mai rinnegato questo suo ardore giovanile che lo aveva indotto a sedici anni, l’ultimo giorno utile (o inutile) ad arruolarsi nell’esercito di Salò, il 25 aprile 1945.
Ho chiesto ad una persona che gli voleva bene e ne condivideva gli ideali di raccontarmi chi era dall’interno della loro medesima esperienza. Si chiama Matteo Orsucci, e mi racconta: «I funerali di un camerata sono sempre qualcosa che non ti aspetti: la gente che si dispone secondo linee astruse a chi non abbia letto Julius Evola o René Guenon, l’arte e la magia, il tributo intimo alla tradizione runica. La bara portata in spalla, disegni di sagome umane che si dispongono a formare i segni dell’eredità nibelungica. Poi, certo, la funzione cristiana, si esce dalla chiesa e gli astanti che recitano la formula: Camerata… Presente!».
Continua: «E’ morto a 80 anni Giano Accame e se coi tempi che corrono una cerimonia del genere pare anacronistica, ecco ci sarebbe da pregarli davvero quelli che andranno al funerale di non metterci del proprio per sentirsi, ancora una volta, magari l’ultima, sulla pelle di un defunto, quello che non sono mai stati e mai saranno».
Giano Accame – ricordo io – è stato uno dei più grandi giornalisti della Destra missina, inviato del Secolo d’Italia quando il Secolo era un giornale, poi suo direttore, un direttore intellettuale rispetto al prima e al poi. Accame era nato a Stoccarda nel 1928, fascista per il rotto della cuffia (“diventai fascista l’8 settembre, alla luce del tradimento” disse nel 2004 in una intervista raccolta da Claudio Sabelli Fioretti); aveva 16 anni ancora il 25 aprile del 1945 quando partì per Salò, dalla parte sbagliata. Ci è rimasto fino in fondo, non scendendo ai compromessi, tentando negli anni di avere un ruolo propositivo all’interno del partito di “esuli in patria”, come Marco Tarchi definirà il Movimento sociale italiano. Era un uomo colto, un uomo perbene, ironico a suo modo.
Orsucci racconta: «Scrissi su Libero due anni un pezzo che lo riguardava: Napolitano alle prese con la cosiddetta memoria condivisa di questo Paese davanti ai morti del comunismo. Proposi di nominare Giano senatore a vita. Era repubblichino, era il Male assoluto, era uno che non volle scendere al compromesso della poltrona. Ricordo che il pezzo si chiudeva con un poco elegante “Prima che sia troppo tardi”. Giano mi chiamò sul cellulare: mi ringraziò, aggiungendo “Se permetti mi tocco i coglioni”».
Accame era proprio così. Chiunque avesse curiosità intellettuale e capacità di stupore lo amava. Giano era come un bambino, senza pregiudizi. Fu il papà del “fascismo immenso e rosso”, ossia quel modo di concepire l’azione del governo mussoliniano delle origini: attenzione ai problemi concreti della gente, un socialismo che non poteva essere dimenticato quindi, e poi un profondissimo conoscitore di Ezra Pound da cui mutuò l’attualità della lotta all’usura dei Pisan Cantos e del diritto umano ad avere una casa… “La politica deve darsi da fare su temi che riguardano da vicino la gente, senza per questo banalizzarsi o involgarirsi”, disse. Eretico all’interno della destra stessa persino quando il Msi tifava per gli arabi e lui sul Secolo difendeva il diritto di Israele ad esistere quale stato indipendente. Un anticipatore.
Orsucci: «Ruppe il futuro della destra in picchiata quando mantenne solide le basi del passato, sapendo che non si poteva prescindere da ciò che si era stati. L’innovazione e il progressismo concepiti come meri colpi di spugna sulla memoria sapeva che avrebbero significato far riaffiorare morti di serie A e di serie B dal dimenticatoio della storia. Quella misera cosa che oggi è la destra sociale, anima sparuta di una non più esistente alleanza nazionale, deve la sua esistenza a un teorico come Giano Accame. Si infuriò con Gianfranco Fini alle parole di rigetto totale sul fascismo, si distaccò dalla vita politica, continuò facendo il giornalista, lo storico, l’uomo che aveva qualcosa da dire dacché a destra era rimasto uno dei pochi che qualcosina da dire ce l’aveva».
Ieri Wikipedia.it, l’enciclopedia on line, ha aggiornato il suo profilo immettendo solamente la data della sua scomparsa.
Era sopravvissuto al Male assoluto, l’ha stroncato un male comune. Per decenza sarebbe bene, al funerale, non sentire quella formula “Camerata Giano Accame… Presente!”. Lui è rimasto fino alla fine sul treno della vergogna, troppi altri sono scesi. Silenzio. Amicizia.