Sono tre i livelli su cui è necessario dire qualche parola chiara sui fatti di Bologna 2009. Essi ci permettono di risalire a Bologna 2 agosto 1980. E a questi 29 anni di morti straziati e strazio della verità.

1) La prima notizia che ha scatenato le nuove (e sempre uguali) polemiche è questa: Valerio Fioravanti condannato all’ergastolo per la strage alla Stazione di Bologna è libero dopo 28 anni di detenzione. Fioravanti si è sempre proclamato innocente, riguardo a questo immane crimine. Colpevole di altri quindici omicidi, ma non per la strage. Ho conosciuto Fioravanti a Rebibbia nel 1996. Ne sono diventato – posso dirlo? – amico.



Questo non falsa o rende di parte il mio giudizio. Anzi, mi consente di leggerlo dal di dentro, capendolo di più. Il suo cammino di revisione di se stesso, della propria vita, è stato faticoso, lungo, chiaro. Rinnega le scelte di violenza terroristica. Ha incontrato persone in cui ha visto e seguito segni di speranza. Lavora nel sociale. Non esprime alcuna possibile pericolosità. Solo si professa innocente. La sentenza è definitiva. Ma lui insiste. Non sono stato io – ripete. Sono un assassino. Ma non per Bologna.



Sono stato vicino in questi anni a lui e alla moglie Francesca Mambro, e come ho potuto alla figlia Arianna. Meno di quel che avrei voluto. Perché appena coinvolto nelle vicende di Abu Omar – una scelta di cui non mi vergogno affatto – il mio legame con loro è diventato pretesto di nuove accuse ai due, con argomenti fasulli, da falsari. C’è un problema. Lo so bene. La pena deve anche essere qualcosa che lenisca anche le pene dei parenti delle vittime, oppure si deve prescindere da questo?

Io credo che pesi il parere dei famigliari dei morti e dei feriti. Ma pesa sulle coscienze dei colpevoli, non può essere determinante nel giudizio della comunità intera che chiede alla pena di essere in funzione di un cambiamento e non di un semplice contrappasso. Ventotto anni di detenzione, più il marchio di assassino, non sono sufficienti soltanto se permane una pericolosità almeno in ipotesi. Così non è.



2) La grandissima maggioranza di coloro che hanno esaminato il caso di Bologna sono convinti dell’innocenza di Fioravanti e Mambro. La Commissione Stragi, la Commissione Mitrokhin hanno accertato la sospetta presenza del terrorista internazionale Carlos e di altri suoi colleghi di infamie a Bologna in quei giorni. Ho raccolto a suo tempo la testimonianza del presidente emerito Francesco Cossiga che affaccia ipotesi legate ai Palestinesi del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, con cui il nostro governo fece (e non mantenne, forse sì forse no) un patto per cui non ci sarebbero stati attentati in Italia, autorizzando però il trasferimento di materiali esplosivi e addirittura missili attraverso il Paese.

Questa ipotesi, che è più di un ipotesi, giace lì, senza che abbia consentito una revisione del processo. Eppure personalità di sinistra, dunque alieni da amicizie o presunte vicinanze alla destra estrema, hanno espresso più volte convinzioni analoghe alle mie: dico alcuni nomi, tra cui Rossana Rossanda, Luigi Manconi e Furio Colombo.

3) In questi ventinove anni la definizione di “strage fascista” non ha obbedito alla necessità di dire la verità ma di trovare a forza un colpevole di comodo. È incredibile come persino l’Associazione dei familiari delle vittime, e in particolare il presidente Paolo Bolognesi, dinanzi perlomeno al dubbio di un errore giudiziario clamoroso, si siano chiusi a riccio ed anzi abbiano rilanciato su questa base accuse di depistaggio. Perché non aprirsi alla possibilità di trovare qualcosa che non restituisce certo la vita ai propri cari, ma consente di comprendere il movente di quanto accaduto.

Detto questo. Impressiona un fatto, e lo dico dinanzi a colpevoli veri o presunti di delitti orrendi: il credere che sia impossibile il cambiamento, che non esista spazio per ricominciare. È vero: chi è morto non ha una seconda occasione. Ma che cosa ci guadagnano i morti a impedire qualsiasi forma di recupero sociale?

Nel 2003 partecipai al Meeting di Rimini con Luigi Manconi ad un incontro dove protagonisti erano Francesca Mambro e Nadia Mantovani (della direzione strategica delle Brigate rosse). Non avevano nessuna ansia di protagonismo. Ma interessava mettere davanti a delle persone interessate non solo della storia ma della capacità dell’uomo di fare il male e di trovare un punto di rinascita. Per sé e persino per i loro morti. Quelle due donne che un paio di decenni prima si sarebbero sparate reciprocamente erano la testimonianza della possibilità della pace. Ci fu polemica da destra e da sinistra. Quell’incontro attirò su di loro fulmini.

Ma chi c’era colse la possibilità per l’Italia di trovare nel suo fondamento cristiano l’occasione per rinascere oggi. Oggi è anche adesso.