Caro Gianfranco (Fini),

Questa è una lettera che è partita con un aggettivo: caro. Davvero caro. Non è un modo di dire, per me. Lo sei ancora, forse di più. Non ti capisco, non ti seguo nel tuo disegno politico, ma questo non modifica l’affetto. È nato da un incontro, e gli incontri sono dei fatti, cose, realtà di date, luoghi. Non vengono meno a causa di tattiche o strategie.

Non c’è stata e non c’è confidenza, eppure ti ho sentito e ti sento amico, e riconosco in te una capacità straordinaria di portare sulle spalle, e nella testa, il senso di una istituzione, il Parlamento. Non un organo funzionale al meccanismo della convivenza, non sei il capo dei tecnici. Ma un organismo, qualcosa di vivo partorito dal popolo e innestato in quella cosa concreta e misteriosa che è la Patria.

Condivido molti giudizi: a proposito di diritti umani degli immigrati e della necessità di dare asilo a chi ne ha bisogno perché viene dalle guerre, o è un bambino o è una donna incinta. Non ho dubbi. Ho le tue perplessità sul reato di clandestinità, e non sto a spiegare qui troppo a lungo perché. Il cristianesimo è universale, non ama i passaporti, la chiusura delle frontiere avrebbe impedito agli apostoli di attraversare il Mediterraneo. E mi fermo qui.

Ricordo molto bene quando partecipammo insieme alla manifestazione romana un sabato del 1997, non importa la data, ma c’era un cielo imperdibile, e radunavi intorno a te un sacco di ragazzi davanti a Santa Maria Maggiore. Mi presentai. Eri parte piena di un popolo, un leader di molte speranze. Sentii dire da te la parola Patria con un accento diverso dalla retorica dal petto gonfio e dagli stivali lustri. Mi hai accolto quando sono diventato deputato come qualcuno che era insieme una persona ma anche una espressione di tanti elettori: e vuol dire speranze, ideali, interessi.

Il Popolo della libertà è nato prima che nelle liste elettorali nella vita concreta di gente che prova a mettersi insieme per rispondere a dei bisogni di dare senso e prosperità ai propri figli ma anche ai figli del mondo intero. Quell’idea positiva della vita, quella certezza che non siamo fatti per soffocare nel pollaio dove i padroni e i padrini dello Stato rovesciano il becchime. Non penso tanto alle manifestazioni (anche!), ma a quelli che escono di casa e alzano la testa, desiderano qualcosa di bello e di forte.

Credono più che nello Stato governato da dirigenti di partito e figli di ideologie, nella bontà che ci viene dalla tradizione viva che sono le famiglie, le associazioni, le amicizie larghe che inducono a costruire qualcosa di grande. E tu sei il leader primo di molti. Per i quali lavoro, patria, famiglia, libertà, Dio non sono menate da comizio, ma pane da spezzare insieme.

Questo è stato il disegno che ha unito Berlusconi e te come esponenti principali di questo grande movimento di rivoluzione buona, di ribaltamento pacifico del conformismo sessantottino e di sinistra. Una moderazione che non è affatto tiepidezza.

Il discorso del tuo insediamento come presidente della Camera mi ha commosso. Hai parlato di un nemico forte da sconfiggere: il relativismo etico, il relativismo culturale. Era chiaro il nesso con quanto era scritto nella tavola dei valori del nostro partito-non-partito. Il riferimento all’esperienza popolare italiana che trova nella “mens” cristiana, nel legame con qualcosa di stabile e insieme sperimentato non solo il cardine ma leva per dare forza alla volontà di modernizzare il Paese, di sburocratizzarlo, di giocarci la sfida della civiltà occidentale senza scivolare nel disastroso nichilismo per cui il valore primo e unico sarebbe l’individuo e la sua volontà. Da qui: sicurezza, sussidiarietà, valore della vita dal primo istante fino alla morte naturale, educazione, famiglia.

Che cosa è successo per cui quello che era il tuo nemico dichiarato “il relativismo” è diventato in pochi mesi il cuore apparente della tua proposta politica? La contrapposizione da te affermata tra laicità e convinzione religiosa, il relegare la fede nella sfera privata è esattamente il contrario della radice popolare che ti ha espresso come leader. Sostenere come hai fatto tu che una proposta di compromesso tra laici e cattolici, sulla base della ragione, a proposito della legge sul fine vita, sia un asservimento inaccettabile a una concezione clericale della vita sociale, sembra tratta da un manuale del perfetto relativista, per cui non esiste una verità che si possa raggiungere insieme, ma vale solo il desiderio dell’individuo, costi quel che costi, anche il naufragio del popolo.

Non è in questione la libertà di coscienza. Ci mancherebbe. Ma che la libertà di coscienza, l’essere svincolati da qualsiasi terreno stabile di valori, sia l’essenza della proposta politica del partito di cui sei cofondatore. Che tutto questo diventi poi il tentativo di far diventare egemonica questa concezione e di trascinare i parlamentari in questa deriva in fondo radicale di destra, è temerario.

Com’è possibile che tu non veda come la simpatia di cui ti circonda la stampa di sinistra sia simmetrica alla violenza con cui pretende di eliminare insieme a Berlusconi un’idea di democrazia per cui conta il consenso dei cittadini e non il beneplacito delle élites? Ovvio che tutto questo comporti poi scontri laceranti, e dia un senso di instabilità. E ciò è ingigantito dal fatto che tu mescoli il carico istituzionale, e il rispetto dovuto a questo alto esercizio, con il tuo radunare intorno a te parlamentari e uomini di cultura per un disegno stimabile ma partigiano. Con il risultato di segare il ramo su cui sei seduto tu, ma che soprattutto è un braccio vivo del popolo che ti ha espresso come leader.

Credo sia necessario incontrarsi, lealmente, discorrendo e raccontando i desideri e le necessità di cui siamo portatori e interpreti. Intanto guai a chi separa, a chi raccoglie manipoli bene intenzionati ma alla fine chiusi in una logica di potere in nome di un relativismo che a questo nostro partito è estraneo fin nel midollo.

Una posizione come la tua, che somiglia tantissimo a quella dei radicali per cui c’è ampio posto nel Pdl (vedi Delle Vedove, Calderisi, Stracquadanio, Saro, e altri amici stimatissimi), non può pretendere di essere sintesi maggioritaria. Sarebbe il modo con cui si perde la nostra identità, il senso stesso di essere espressione della tradizione vivente della nostra cultura e civiltà. A presto, prima che sia tardi.