Veniamo dal Meeting di Rimini. Questo è stato l’avvenimento dell’estate italiana. Un avvenimento che ha avuto la dimensione intera dell’umano: e dunque è stata anche un segnale fortissimo per la politica.

Essa non può essere schiava di se stessa, in un avvitamento sui suoi giochi e le sue chiacchiere. Lì chi c’era, ma pure per chi ha voluto documentarsi senza pregiudizi, si è visto come esistano nella società energie formidabili.

Una tensione verso il bene incoercibile: gli uomini desiderano la felicità, e questo non è un sentimento, la struttura profonda del vivere. La politica è al servizio di questo, in piena continuità con questa energia misteriosamente costitutiva dell’istante. Con forze che si oppongono, tanta meschinità, persino tradimenti. Ma la storia è il dispiegarsi buono di questa grandezza. Senza automatismi, con la possibilità di decadenze, quando si dimentica e si dà guerra a Dio. Però c’è una scintilla di libertà che non si può spegnere.

Non sto qui a scrivere di filosofia della storia. Constato dei segni. Invece  a seguire le cronache politiche – al centro di tutto si è collocato un appartamento a Montecarlo, il personalismo eretto a pilastro dell’Italia. Per carità, ci sta tutto nella vita. Ci sta che domini il moralismo, dove si tende a eliminare l’avversario piazzandogli la magistratura in casa, e con identica mossa si replichi sulla stessa lunghezza d’onda.

Non siamo gente che sta sulle nuvole, dunque anche queste cose non si possono snobbare. Ma proprio perché non siamo sulle nuvole, conviene badare alla vita concreta delle persone comuni, delle loro famiglie, del loro lavoro. A questo la politica deve badare soprattutto.

 

Il discorso di Gianfranco Fini di sabato sera, con asprezze inutili e accuse ancora ingiuste e offensive, però ha un aspetto che sarebbe stupido e irresponsabile buttar via. Compito di Berlusconi e del Pdl è oggi quello di far prevalere sul giustificabile istinto di rivalsa il valore assoluto del bene comune. Il bene comune impone oggi di governare. Di prendere con una mano il ditino magari incerto di Fini e di mettersi a realizzare i punti del programma che varrebbero da soli una legislatura. C’è un proverbio russo, citato da Solzenicyn, che dice: “Una parola dolce rompe un osso”. E qui c’è da spezzare l’osso del rancore.

Vediamo che cosa preme. Due capitoli sarebbero da scrivere presto. Il primo è quello di una riforma fiscale, che abbia per soggetti privilegiati: la famiglia; le piccole e medie imprese. Sono i protagonisti della rinascita possibile e della resistenza che il nostro Paese ha manifestato a differenza dei Paesi anglosassoni. E famiglia e piccole e medie imprese (Pim) hanno un destino intrecciato.

Il quoziente famigliare sarebbe un segno potente di attenzione alle esigenze dell’Italia profonda, la quale ha bisogno di essere ricostruita dalla sua cellula originaria, senza cui non può esserci benessere e speranza di futuro.

Sulle imprese: bisognerà mettere mano all’Irap, premiando il lavoro, e smettendo di srotolare tappeti rossi alla finanza. Qui Tremonti può dare libero corso alla sua genialità così legata alla tradizione cristiana delle sue terre.

 

 

 

Il secondo perno è la giustizia. Essa pende sulla testa della politica impedendole di esprimersi e manifestandosi come strumento della demolizione del benessere invece che come strumento di equità e di serenità. Non è una fissazione di Berlusconi, ma la riforma è una necessità autentica.

In campo civile e penale non ci sono certezze. Invece di spegnere la litigiosità l’attuale sistema la incrementa, ed essa è una anomalia che pesa sulle spalle del Paese, soffocandolo, come la forma peggiore e a volte crudele di burocrazia.

Dunque si ricominci ora con la politica. Non si pensi alle elezioni anticipate, e al modo per arrivarci con più possibilità di cavarsela. Ma al bene comune. Ciò che alla fine gli italiani, i quali saranno ingenui ma non fessi, valuteranno e sapranno riconoscere all’appuntamento naturale delle urne.