Più il tempo passa e più appaiono chiare due cose. La lontananza estrema del fatto, la sua atrocità stupida; la vicinanza essenziale di Aldo Moro, la sua testimonianza utile alla nostra vita e alla nostra democrazia.

In quei giorni del 1978 tutto appariva possibile. Anche la violenza assassina era spiegabile perfettamente con gli strumenti dell’ideologia. Poi si poteva dire di sì o di no, ma sulla base comunque di un approccio di relativismo storico, e assumendo come valore assoluto delle astrazioni o dei poteri.



Questo divise i due fronti, anche se mi rendo conto di essere schematico. Si era con le Br o con lo Stato. Oppure né con lo Stato, né con le Br. Ma qualcuno che fosse per il semplice valore della persona, che pesa più dello Stato e più della Rivoluzione (senza mettere affatto sullo stesso piano ciò che promana dal popolo e ciò che, arrogandosene la rappresentanza, uccide) si trovò solo nella lettera di Paolo VI, il quale pronunciò le uniche parole cristiane e dunque umane sulla scena pubblica.



Rileggendo le lettere di Aldo Moro oggi si comprende benissimo come esse fossero coerenti con la sua idea dello Stato democratico: non un Moloch che prevale sugli affetti familiari, ma un padre che dà la vita per i suoi figli e non il contrario. Moro fu rapito e poi assassinato – così attestano le scoperte silenziate della Commissione Mitrokhin – per ragioni di ideologia italiana e su supervisione sovietica.

Le motivazioni soggettive dei brigatisti sono tutte interne al mondo comunista, alla visione di una Resistenza incompiuta: Moro, nel suo lavoro paziente di democratizzazione del Pci di Berlinguer, era il nemico per eccellenza della purezza rossa, il vero Belzebu, insieme per altro a Cossiga e ad Andreotti. Mosca lo voleva morto come in precedenza avrebbe voluto assassinare anche Berlinguer, perché con Moro vivo e attivo, con la sua intelligenza superiore e la capacita di convinzione senza pari, il processo di consenso alla Nato da parte del Pci sarebbe stato inevitabile.



In quegli anni l’Unione Sovietica di Breznev pensava realmente a un’invasione dell’Occidente come unico modo di sopravvivenza, ma questo sarebbe stato impossibile senza poter contare su una quinta colonna filo-russa oltre il Brennero.

Qui, pero, non è il caso di entrare in questioni oggi in fondo accademiche (ma chi sa, parli!) bensì di porsi nel bel mezzo di quell’evento. E imparare qualcosa da esso, con umiltà. Ci provo per punti.

1) Il criterio del bene e del male non dipende dal contesto storico, per cui uccidere gli inermi qualche volta si può per un bene futuro.

2) Per capire e affermare questa verità non serve ancorarsi a regole o convenzioni storiche. Occorre riferirsi a quelle evidenze originarie che solo una cattiva educazione e cattivi maestri hanno potuto annebbiare o ribaltare.

3) Lo Stato deve difendersi dalle aggressioni che puntano a distruggere i pilastri democratici della vita comune. Anche usando la forza.

4) Il metodo di contrasto a questa violenza assassina di stampo ideologico dev’essere però come quello proposto da Moro in tutta la sua vita, con l’affermazione del primato della persona. Questo non è cedimento o rinunzia, debolezza o resa. Ma affermazione di che cosa conta davvero.

5) Oggi assistiamo all’incedere senza freni di una dittatura del relativismo per cui alla fine tutto è possibile e in fondo lecito. Il freno a che il metodo della violenza si faccia strada non sta in una dialettica dotta, ma nella testimonianza di chi vive con gioia e passione dentro una proposta amorevole e costruttiva. Come Moro, insomma. Oggi, dopo 33 anni, che sono l’eta di Cristo, questa è l’unica strada, e non se ne conosce un’altra che sia umana.

 

P.S. C’è un’altra persona da ricordare oggi: Francesco Cossiga. Nessuno ha sofferto come lui per quella morte. Ora sono amici a faccia a faccia, spero proteggano l’Italia.