Adriano Sofri da oggi è libero. La sua pena è esaurita. Era stato condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Di questo delitto si era dichiarato sempre fieramente innocente, pur battendosi il petto per il clima che aveva creato a quel tempo con la propria predicazione. Per anni la posizione di Sofri è stata oggetto di polemiche tremende. Per sette volte corti d’assise, d’assise d’appello e di cassazione lo hanno sottoposto a giudizio. In un’occasione fu assolto, altre volte condannato in modo pasticciato. Alla fine la condanna è stata fissata senza dubbi di sorta.



I suoi amici lo hanno sostenuto sempre. Dal carcere e poi dalla libertà ottenuta per motivi di salute ha scritto pagine spesso molto belle, altre volte discutibili (specie negli ultimi anni, dove ha vestito talvolta i panni candidi del moralista, ahimè). Quale commento allora? Sono contento. La libertà è un bene grandioso, e se essa oggi coincide con una giustizia appagata, tanto meglio. Ilsussidiario.net è un posto dove su tutte le vicende, specie quelle che toccano sensibilità e storie diverse, non c’è una linea preconcetta. E non c’è nessuna paura di sbandare. Io confesso questo: non sono capace di scrivere con distacco. Chi vuol bene a volte sbaglia. Ma chi non vuol bene sbaglia sempre. E io ad Adriano Sofri, anche se non lo sento da troppi anni, voglio molto bene.



Come tanti tra coloro che leggono queste pagine sono stato colpito soprattutto dal modo con cui ha raccontato l’incontro di Giovanni Paolo II e don Luigi Giussani nel maggio del 1998 (se ne trova traccia su youtube). Don Giussani che si buttava, vecchio e malato, ma ritto nel rispetto e nell’amore, in ginocchio davanti al Papa che si inchinava. E aveva appena parlato dell’uomo mendicante di Cristo e di Cristo mendicante del cuore dell’uomo. Eravamo tu e io, quell’uomo. Ed era Adriano Sofri.

Sulla sua vicenda processuale le opinioni restano divergenti. Molto spesso si è guardato a questa storia osservando più chi fossero amici e nemici suoi, per schierarsi poi di conseguenza. Di certo in quegli anni fu cattivo maestro, e mi convinsi leggendo le carte e incontrando Adriano di persona, in una casa romana piena di gerani, mentre faceva sciopero della fame, che fosse innocente. Incontrai anche Leonardo Marino, il suo accusatore, e mi sono ritrovato a essere lacerato. Non dico altro su tutto questo. Di certo Luigi Calabresi ha vissuto, dal posto beato dove è giunto insanguinato, con molta pietà per tutte queste vicende, ma è stato vicino alla sua bellissima famiglia. A volte il sangue dei martiri fa fiorire non solo la grande Chiesa, ma anche la piccola Chiesa domestica, la famiglia.

Vorrei a questo punto fare alcune riflessioni. La lezione del delitto Calabresi. L’assassinio cresce nel torbido di una cultura violenta. In quel bosco fetido spuntano funghi velenosi. È la cultura di piazza Fontana diventata ben presto cultura della vendetta contro i presunti colpevoli (anche innocenti come Calabresi). Impressiona notare come in 700 importanti intellettuali abbiano sottoscritto di fatto la condanna a morte anticipata su L’Espresso. C’era il fior fiore. Nomi ancora oggi pronti a giurare il loro candore contro l’immoralità altrui, specie di Berlusconi?

Ma più che la lezione del delitto, oggi vorrei dal fine pena di Sofri, trarre la lezione di Calabresi. Un buon pretesto per ricordare un servitore del bene comune che girava in Cinquecento, che sapeva intessere rapporti umani con chiunque a lui si avvicinasse. Qualcuno aveva proposto di aprire un processo di beatificazione. Non so a che punto sia, ma non mi pare un’idea balzana.

Ultima cosa. Sofri in un momento per me dolorosissimo per accuse che io so in coscienza ingiuste si definì mio amico. Queste cose pesano.