L’invito di dieci anni fa di Giovanni Paolo II al Parlamento italiano che diceva? C’è stato l’anniversario il 14 novembre, e abbiamo celebrato questa memoria. Sì, ma che diceva? Abbiamo appuntato una medaglia d’oro simbolica sul petto del Beato. Ma i contenuti restano lì, inevasi. Ecco, che diceva? Papa Wojtyla nel punto centrale del suo discorso constatava il “penoso sovraffollamento” delle carceri e domandava “un segno di clemenza”. Vedeva in questo la prova regina della civiltà italiana che ha per centro il rispetto della persona. Povero Papa, ma soprattutto poveri noi.



Ora escono i dati dell’Associazione Antigone che documenta come in Europa, quanto a densità di carcerati in rapporto allo spazio, siamo i peggiori. Anche usando la manica larga inventata per schivare le colpe (la famosa capienza “tollerabile”, ma tollerabile da chi?), siamo fuori legge. Qualunque detenuto che ha denunciato l’Italia alla Corte europea dei diritti umani ha avuto facilmente diritto al risarcimento. Ma è difficile risarcire i 53 suicidi, il venti per cento in più dello stesso periodo dell’anno scorso, i suicidi non seguono queste pratiche burocratiche. Ho scritto un numero, 53, sapendo bene che i numeri li dimentichiamo subito. E’ una legge della natura umana. Hanno però la forza di suscitare stupore almeno per un minuto, si dice. Mi domando: ci riescono quando ci sono di mezzo i reietti, i detenuti? Ormai non ci credo più, mica sono importanti come le cifre dello spread quelle degli uomini e le donne incarcerati.



Impressiona come i campioni della legalità presunta, i Grillo e i Di Pietro, e i magistrati d’assalto, intendano la citata legalità come una parola d’ordine buona per sbattere dentro la gente, più o meno colpevole. Ma l’illegalità palese e stritolante di uno Stato che non si limita a togliere la libertà, ma la trasforma strutturalmente in tortura, lascia indifferenti. Anzi consente battute spiritose ai Grillo e ai Santoro, i quali dinanzi alla gente ridotta a scheletro scherzano sul fatto che il carcere rimette in forma a “nostre spese” meglio di una Spa.

Da anni picchiamo il martello su questo chiodo in Parlamento. Il sovraffollamento delle prigioni italiane susciterebbe l’ira degli animalisti se invece di galere ci fossero di mezzo i circhi e i trichechi. Invece se si tratta di persone, si glissa, si rinvia, si ammette, ma poi si passa ad altro.



Sono tra quelli che ritengono necessaria l’amnistia. Non per sbattere i delinquenti di nuovo a delinquere, ma proprio per impedire che delinquenti diventiamo tutti noi. Più passano i giorni, e più visito i detenuti nelle celle (prerogativa dei deputati) più mi rendo conto che il “segno di clemenza” verso i carcerati sarebbe clemenza verso noi stessi, perché, come con senso molto pratico diceva Lucia Mondella, “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”. E lo sappiamo bene, se siamo onesti, quanto bisogno di perdono abbiamo. L’amnistia non serve a svuotare le carceri, ma a rimettere in gioco la macchina della giustizia, che è avvelenata non solo nelle sue cantine (le celle) ma anche nella sua produzione di sentenze.

Piuttosto che ricordare i numeri, che serve a poco, ricordiamoci le facce e le storie. Il carcere non è solo pena per il criminale o per il presunto colpevole, è anche il luogo di una umanità gigantesca e addolorata. Bisogna valorizzare intanto tutte le esperienze che consentono a questa umanità di traboccare oltre le mura della prigione. Per questo è importante che si amplino le offerte di lavoro vero dentro gli istituti di pena. Conviene anche in termini di sicurezza per la gente fuori. Chi lavora poi, se conserva questo lavoro, non delinque più. La cifra scende sotto il 5 per cento, contro il 60-70 di chi tra i reclusi non ha avuto questa possibilità. Ma non è solo quello. Non sono solo numeri. C’è di mezzo l’evidenza che una vita buona + davvero possibile, e gli uomini possono cambiare, trovare un senso buono della vita, che poi si diffonde come una speranza per tutti.