Prevale il dolore, sulla capacità di raffigurarlo come figura storica. Perché è stato una figura storica, essendo come nessun altro persona, persona cristiana. Questo vedo ora in lui.
Ho appena telefonato a casa di Andreotti, mentre scrivo queste righe. Mi ha risposto il genero, e mi ha detto: “Sappia che il senatore le ha voluto molto bene”. Sono rimasto stupefatto. Non mi aveva mai detto qualcosa di simile. Eppure lo sapevo molto bene: era un uomo capace di voler bene. Questa è stata l’essenza della sua personalità politica, in realtà era la cifra di tutto il suo impegno. Il suo famoso cinismo è una balla colossale. Si confondeva la sua freddezza, il suo pudore, la sua circospezione, con l’assenza di scrupoli. Il cinismo significa rifiuto di religiosità. Rifiuto di amore, per un calcolo di vantaggio. Lui calcolava, sceglieva i tempi delle parole e delle azioni, ma aveva sempre in mente qualcosa di più in là. Concepiva la politica come segno, come rimando a oltre l’orizzonte.
Provo a distaccarmi dal ricordo intimo. Girando con lui durante il suo processo infinito, a Palermo, a Padova, a Roma, a Milano, andando la mattina presto alla messa, le persone che di buon mattino lo vedevano si accostavano a lui sentendolo come un padre, gli dicevano parole ammirate. Non ho trovato una sola volta qualche tizio che lo insultasse. Forse perché chi si alza la mattina presto ha lo sguardo più puro.
Andreotti è stato il simbolo della politica cristiana sin dai primi anni di dopoguerra. Si potevano certo avere altre idee e linee di azione, essendo comunque uomini di fede (Sturzo, Dossetti, Fanfani furono diversissimi da lui), ma il suo modo di essere era cattolico romano, come nessun altro prima o dopo nella vita pubblica italiana.
Ora si ricorda di lui la fase finale della sua esistenza. Il suo calvario giudiziario. Inevitabilmente di un uomo che muore restano in mente le ultime immagini. La sua assoluzione, la dichiarazione formale e definitiva di non colpevolezza da parte della Corte di Cassazione, i suoi accusatori non hanno voluto accettarle. E hanno insistito, come oggi la giovanissima deputata Giulia Sarti del Movimento Cinque Stelle, sul fatto che fosse stato in realtà condannato ma prescritto. Una contraddizione in termini. Soprattutto una pretesa di andare al di là delle sentenze, una maniera per concepire la politica come odio, come risentimento, invece che come voler bene.



Cossiga disse di lui che fu il vero ministro degli Esteri della Santa Sede, e in questo e per questo davvero italiano. Egli era l’italiano come termine finale di una tradizione cattolica serena e papalina. Voglio qui ricordare due frasi: “Non mi hanno fatto male”. Disse così a proposito dei suoi atroci accusatori. Tutto è buono, anche le prove, perché in Paradiso non ci si va in carrozza. L’altra quando cambiò idea sul referendum sulla fecondazione assistita. Era deciso a votare contro, ma andando a deporre la scheda. Lo dichiarò pubblicamente. Il consiglio della Conferenza episcopale e in particolare del cardinal Ruini era invece di non presentarsi ai seggi. Allora, lui che era il genio dell’astuzia politica, disse: “Preferisco obbedire”.
Ma no, una terza frase la voglio dire: “Quando ai funerali di don Luigi (chiamava così don Giussani, nda) udii la predica di Ratzinger, fui certo sarebbe diventato Papa”.
Ora mi piace l’idea dei discorsi che faranno lassù, dopo non esserci certo arrivati in carrozza, Moro, Cossiga e Andreotti. Date un occhio all’Italia, per favore!

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