Molte delle nuove disposizioni a proposito di reati e pene recepiscono convenzioni internazionali. Eppure non intendo minimizzare, sarebbe sciocco. Papa Francesco non è il tipo che dia deleghe su materie come queste o si affidi al recepimento inerte di trattati. L’abrogazione dell’ergastolo e l’introduzione del reato di tortura, che l’Italia non ha ancora fatto suo, sono introdotti insieme all’attentato alla sicurezza dello Stato, al terrorismo internazionale. Non si può insomma derubricare il tutto, come purtroppo è stato fatto per il pellegrinaggio sul mare degli immigrati, a buonismo per anime pie.
In queste scelte come in quella della visita a Lampedusa è messa in gioco non l’applicazione di principi, ma il concreto piegarsi di un uomo, papa Francesco, sugli uomini sofferenti e peccatori, sul bisogno che essi hanno di misericordia. Una misericordia da mettere in pratica adesso e ora, non domani o nel futuro indeterminato. A questo chiama tutti e ciascuno, cristiano oppure no, il Santo Padre. Come emerge dalla enciclica scritta con Benedetto XVI, la fede non è una virtù consolatoria fuori della vita, non è ammettere che il massimo valore è l’amore. L’amore si documenta nella storia, la fede è corrispondenza a una presenza d’amore attiva. È misericordia in atto. Non può essere confinata nella stanza della meditazione (eresia gnostica) oppure essere conseguenza del nostro sforzo di volontà: ma è un dono che ha bisogno della nostra libertà.
Dunque abolire l’ergastolo, cosa che oggi è richiesta in un referendum dei radicali, richiama la certezza che l’uomo può cambiare, e la pena ha sì una funzione espiativa e deterrente, ma è anche il luogo in cui è possibile rinascere. Esiste questa possibilità. E questo varrà anche per chi da ora in poi sarà punito per reati prima inesistenti come la tortura o oggi resi più gravi come gli abusi sui minori.
La pena non è dannazione, ma il primo passo della misericordia. Romano Guardini, del resto oggi il pensatore più citato dai Papi, essendo strato prima maestro di Papa Ratzinger e poi oggetto privilegiato di studi di Papa Bergoglio, scrisse cose magnifiche sul potere e la giustizia. Il grande filosofo di origine veronese pone al centro della idea di Europa e della giustizia che dovrà prevalere in essa il criterio della “cura per l’uomo”. E questo esige un potere che non sia “dominio”. Scrive: “Ma c’è anche un’altra forma di esercitare il potere, quella del servizio… questo servizio è questione di forza che si sente responsabile per la vita – per tutto ciò che si chiama vivere: uomo, popolo, cultura, ordine del paese e della terra. Tutto ciò non nell’impotenza della debolezza, ma nella superiorità della forza; legittimato parimenti per incarico divino , ma in una maniera che non esprime , bensì – se è lecito richiamare in onore questa parola proibita – umiltà. Forza di servizio, che vuole che le cose della terra divengano giuste” (“Europa. Compito e destino”, Morcelliana, Brescia 2004, pag. 27).
La giustizia, rappresentata dalla dea Dike, è bendata (imparziale), tiene la bilancia (equità), impugna la spada (forza). Questi sono gli elementi classici. Ma applicati come principi essi non alludono alla possibilità di una giustizia che abbia cura dell’uomo.
Piano piano nella tradizione iconografica si è imposto un nuovo tratto permanente: la veste di Dike lascia scoperto il ginocchio. Il ginocchio indifeso, ingiustificatamente nudo, secondo gli studiosi, è forse simbolo di quella cosa che è l’umanità, la considerazione del bene comune, il buon senso, la clemenza, la misericordia. In quel ginocchio scoperto c’è molto fascino.
Come molti, ho una predilezione per la Cappella degli Scrovegni, a Padova. Lì Giotto fa sedere la Giustizia di fronte alla porta della città. Regge una bilancia con cui pesa ogni cosa con grande equilibrio. Sul piatto di destra si erge un angelo che incorona il bene, mentre l’angelo che ha i piedi sul piatto di sinistra sta giustiziando il male. La spada non è autonoma, è un elemento della bilancia. La tunica in questo caso non lascia vedere il ginocchio, ma questo elemento di umanità piena, ulteriore rispetto ai simboli classici, è rappresentato in una narrazione connessa alla giustizia giusta. Nella predella infatti quattro cavalieri – due cacciatori con cani e falcone e due mercanti – procedono sicuri, dirigendosi verso un villaggio in festa, dove si suona e si danza. Questa è la Giustizia: forza per affermare la vita buona, aiutare il commercio, punire il male, e così indurre alla prosperità festosa la città… Giustizia e misericordia si baceranno. Cominciamo adesso a provarci, non domani.