La proposta di legge per istituire una commissione d’inchiesta parlamentare sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta è stata firmata da autorevoli deputati di ogni partito. Vuol dire: 1) che c’è una esigenza enorme di verità; 2) che si arriverà a impilare un milione di fotocopie e a spandere una grande confusione, poiché questi sono i risultati ottenuti sinora dalle Commissioni di indagine siano state sulle Stragi o sulla P2 o sulla Mitrokhin. In realtà, le inchieste strappano al mare e dispongono sulla spiaggia molte conchiglie, poi l’ondata delle interpretazioni e degli a-chi-giova le trascinano di nuovo negli abissi. Spero che qualche anima onesta riesca almeno a mettere in salvo qualche conchiglia e forse qualche stella marina dal risucchio della marea. Sono certo che – se si scaverà con lealtà e cura – accanto a trame torbide e sanguinose, emergeranno gesti nobili e sacrifici impensabili.



Intanto alcune considerazioni. Una nota di tristezza. Questa decisione nasce dopo la rivelazione di alcuni artificieri che improvvisamente, a Cossiga morto e sepolto, si ricordano e denunciano la sua presenza “senza stupore” in via Caetani, accanto al corpo crivellato di Moro parecchie ore prima del ritrovamento ufficiale. La commissione dunque appare nascere sul sospetto contro la persona di Cossiga, e questo se vero sarebbe ingiusto e vigliacco. Sarà opportuno allora spazzare via questo fango a orologeria, e chiarire da parte dei promotori dell’iniziativa che “post hoc” (dopo ciò) non vuol dire assolutamente “propter hoc” (a causa di ciò).



Ho avuto una grande fortuna: l’essere stato accanto a tre immense personalità, sia pure in ambiti assai diversi, ma tutte cristiane e davvero amiche: don Giussani, Andreotti e Cossiga. I ricordi di Moro, lo sanno tutti e ci mancherebbe, erano vivissimi e hanno cambiato la vita di Andreotti e Cossiga. Ma anche don Giussani (che era molto amato da Moro, il quale indirizzò a lui Cossiga) ne soffrì e ci rifletté molto. Dieci anni dopo i fatti, in una intervista per il Sabato, parlando del tempo di Paolo VI, senza essere sollecitato da alcuna domanda specifica, se ne uscì così: “Ci fu l’uccisione di Moro. Ricordo con commozione la preghiera per l’amico morto. L’unica parola davvero sincera che abbiamo udita in quell’epoca. L’unica ed ancora adesso la fine di Moro rimane un enigma altamente equivoco. Paolo VI disse la parola cristiana. A dire quella parola non si sbaglia mai”. (“Un caffè in compagnia”, Rizzoli, 2004).



La fine di Moro rimane un enigma altamente equivoco. I lunghi colloqui che ebbi con Andreotti e Cossiga non valsero a risolverlo, anche se entrambi preferivano acquietarsi – senza riuscirci – nella considerazione che erano state le Brigate Rosse, punto e basta. Andreotti insisteva molto sull’impossibilità di aprire trattative per salvare “uno di noi”, un politico cioè. Cercò in ogni modo di aiutare – mi disse – la via vaticana alla salvezza dell’“amico Aldo Moro”, con monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, che aveva preparato un riscatto di forse cinque miliardi da consegnare a nome di Paolo VI. Il tentativo si schiantò all’ultimo istante sull’evidenza della morte di Moro.

Cossiga mi raccontò tantissime cose. Non si dava proprio pace. Su un punto tornava e ritornava: perché Moro non attaccò mai Berlinguer? Perché la famiglia Moro se la prese solo con Andreotti e Cossiga e invece salvò sempre Berlinguer che pure era l’inventore della “linea della fermezza”? Ancora: perché Prodi nascose la fonte delle sue rivelazioni sulla prigione di Moro, mascherandola dietro la seduta spiritica? Cossiga a un certo punto mi disse anche che accanto al nome Gradoli, ricordava che Prodi aveva fatto sapere anche un numero. Un numero civico? Poi disse di essersi confuso. Appurai con lui che il memoriale Moro finito tra le mani di Cossiga e da lui studiato e restituito era più ampio di quello poi reso noto e pubblicato: c’era una parte sulla visita in Irlanda del Nord dell’allora ministro dell’Interno che qualcuno cancellò e altre cose ancora. Ma Cossiga non si perdonava tante cose. E soprattutto non si perdonava il fatto di essere convinto di aver agito bene.

Paradossi della vita e dell’amicizia. Diceva di aver sbagliato a non credere all’autenticità intrinseca delle lettere del prigioniero Moro, e dichiarò: “Ho ucciso Moro e lo rifarei”. Perché? Per difendere lo Stato di diritto. Moro a sua volta voleva coerentemente salvarsi in nome della superiorità da lui sempre proclamata della persona e della famiglia sullo Stato.

Il giudice Imposimato, esperto di quell’“affaire”, dopo aver letto il mio libro “Cossiga mi ha detto”, e in particolare i capitoli su Moro, mi assicurò che in quelle pagine il defunto Presidente sardo aveva riferito molte più cose di quante se ne conoscessero fino ad allora. Altri, che hanno compulsato gli atti segretati della Commissione Mitrokhin, sostengono che di certo ci sono i russi dietro, e di sicuro un dossier su Br e Aldo Moro è stato scoperto dallo storico Antonio Selvatici negli archivi della Stasi, la polizia segreta della Ddr, a Berlino.

Per parte mia mi imbattei in un altro mistero e feci sul punto una interrogazione. La famosa storia di via Gradoli non andò come si disse. Trascrivo dall’agenzia Ansa che la riprese il 21 maggio 2008 (e fu subito nascosta): 

Renato Farina, del Pdl, ha presentato oggi un’interpellanza al ministro dell’Interno sul caso Moro, dopo aver visto alcune scene del film del regista Carlo Infanti, «La verità negata». Nell’inchiesta si sostiene che gli esiti della seduta spiritica del 2 aprile 1978, a Zappolino, nella villa del professor Clò siano stati del tutto differenti da quelli sostenuti nelle versioni ufficiali. «Durante quella seduta – afferma l’esponente del Pdl – fu chiesto agli spiriti di La Pira e Don Sturzo ove fosse tenuto prigioniero il presidente della Dc, Aldo Moro, e dopo il vaticinio “Gradoli”, il suggerimento della signora Moro: “Cercate a Roma una via Gradoli” fu ignorato; le si rispose anzi che nel “Tutto Città” non esisteva, infatti le forze dell’Ordine non andarono in via Gradoli, ma fu messa a ferro e fuoco Gradoli, cittadina dell’alto Lazio, per cercare Moro. Questo lasciano intendere molti illustri parlamentari e storici, come Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, che ripete questo fatto in un libro recente». In realtà, afferma ancora Farina, «le autorità cittadine in carica a Gradoli a quei tempi hanno testimoniato al regista Carlo Infanti (e oggi lo ribadisce nell’intervista apparsa su “Il Giorno” a firma di Silvio Danese) che nessun inquirente cercò Aldo Moro in quel paese e non vi furono controlli a tappeto, le stesse autorità cittadine hanno dichiarato che in quei giorni tre inviati di “Unità”, “Messaggero” e “Avanti” si recarono a Gradoli, appurando non vi era successo nulla e infatti nulla scrissero né allora né nei trent’anni successivi su quei tre quotidiani circa la presunta “invasione” di Gradoli». Farina chiede di sapere quali azioni il Ministro dell’Interno e il Presidente del Consiglio «intendano intraprendere per accertare e riferire chi siano i giornalisti eventualmente reticenti e come si sia potuto sviluppare anche in sedi ufficiali una simile panzana storica, e se non ritengano poi doveroso rendere immediatamente pubblici tutti gli atti concernenti la cosiddetta operazione di Gradoli».

Nessuno mi rispose. Tutto fu seppellito. Cossiga al mio racconto corrucciò il viso. Eh sì, la fine di Moro “rimane un enigma altamente equivoco”. La Commissione vuole sapere la verità. È giusto ed umano. Ci credo poco. Vedremo.