La lettera di Peter Kassing dalla prigionia è autentica. Lì c’è un nostro fratello uomo, in balìa di una forza senza pietà. Possiede tutto di lui, l’entità totalitaria che lo opprime, ma non può togliergli la capacità di amare. Peter nella sofferenza dice che l’unica cosa che gli resta, sparita anche la speranza, è amare i propri cari, la propria famiglia, e perciò non è solo, nemmeno nella paura e nella vicinanza della morte. Scrive “I love you”.
Nell’assassinare l’ostaggio britannico Alan Henning, il boia ha annunciato due giorni fa che sarà proprio questo ragazzo di 26 anni ad essere il quinto decapitato occidentale dell’Isis. Non importa loro che si sia sottomesso a loro e alla loro religione. Quella lettera alla madre e al padre è un ottimo motivo per farlo davvero: è insopportabile per i persecutori, perché dimostra che esiste una realtà, l’“io”, più forte del coltello e della vessazione.
Chiedo una cosa a me stesso, nel rileggere i passi di quella pagina scritta e inviata ai suoi cari in America il 2 giugno scorso e rivelata ora. La chiedo anche ai lettori. Non poniamoci adesso la domanda se sia stata scritta da un uomo che ha scelto liberamente di convertirsi all’islam (quale islam?) oppure da chi sia stato costretto a piegarsi ai torturatori usando la sua fragilità di sequestrato. Come riferito da un ex ostaggio, nel corso della prigionia, dopo il rapimento del 1° ottobre 2013, Peter si è infatti convertito all’islam, cambiando il proprio nome in Abdul Rahman.
Di questo poi.
Non lasciamoci distrarre da paragoni con il caso Moro. 36 anni fa, le sue lettere dalla prigionia furono sepolte come false e inquinate poiché scritte in condizione di totale dominazione dei brigatisti rossi. Cossiga spiegò troppo tardi e pieno di dolore che si era sbagliato: era davvero Moro. Stiamo alla sostanza delle parole di Peter: esse sono oro puro. “Ho paura di morire, ma la cosa più difficile è non sapere, immaginare, sperare se posso addirittura sperare ancora”. Ancora: “Sono molto triste per ciò che è successo e per quello che voi a casa state passando. Se dovessi morire, immagino che almeno voi e io possiamo trovare rifugio e conforto nel sapere che sono partito nel tentativo di alleviare la sofferenza e aiutare i bisognosi“, scrive ancora Peter.
È così. Noi uomini non siamo fatti per curare il nostro orto chiuso, e rifiutarci di vedere oltre il becchime come le galline. Questo, Peter o Abdul non può rinunciare, neanche mentre la speranza sembra andarsene, a rivendicarlo come legato alla natura del suo cuore.
I genitori chiedono “pietà” ai sequestratori. Fanno rimbalzare addosso a loro il giudizio su ciò che è buono e giusto, tanto da far passare in seconda linea anche la morte: ed è il “tentativo di alleviare la sofferenza”. E come? Offrendosi come compagnia dei profughi siriani.
Queste parole, che non fanno differenza su chi sia il bisognoso, su quale religione professi, e che intridono di commozione, le parole di Peter lo legano indissolubilmente alla propria origine cristiana, e perciò sono così umane che non si riesce a capire che diavolo di credo professino i suoi sequestratori.
E qui siamo alla questione della sua conversione o meno, ormai inevitabile. Scrive Abdul, o forse è ancora Peter? “In termini di fede, prego ogni giorno e non sono arrabbiato per la mia condizione. Sono in una complicata situazione dogmatica qui, ma sono in pace con il mio credo”.
Che cos’è la complicata situazione dogmatica di cui parla, e così il suo “credo” con cui si sente in pace? Non so che cosa dire. Come ha fatto a rinnegare Cristo in nome dell’amore? Impossibile, assurdo. So però che con questo ragazzo, Peter o Abdul, sono totalmente implicato e che con lui e la sua famiglia, prego, anzi preghiamo. Nemmeno io sono solo, noi cristiani non siamo soli, Dio si è incarnato, si è fatto crocifiggere, come Peter, sì Peter, rischia di esserlo dai suoi boia. Mi piacerebbe dirgli che nostro Signore Gesù Cristo, ricco di misericordia e di pace, non lo abbandona di certo, se ne infischia dei nostri rinnegamenti.