Eugenio Corti è stato il genio di un popolo. Un genio anche nel senso delle favole dei bambini, per cui sfregando la lampada esce qualcuno che realizza i tuoi desideri. Per me, per tanti, è stato così. Credo che lo sarà per tante generazioni future, per i prossimi secoli, se resisterà almeno l’ombra di un uomo della Brianza.



Ho scritto “genio di un popolo”. Nei suoi romanzi questo popolo è quello “brianteo”, ma il popolo della Brianza non è un’entità soltanto territoriale, è come l’archetipo del destino delle genti europee, toccate dal cristianesimo specie nella gente più umile, ed oggi sottoposta al lavaggio di un acido muriatico tremendo, che in buona parte ha inquinato anche molti locali di quella bellissima casa che è la Chiesa, il fumo di Satana che rende l’uomo diviso in se stesso, meno capace di vedere la bellezza del mondo e la grandezza del creato.



Io ho avuto la singolare sorte di poterlo frequentare ahimè troppo raramente. Un giorno dei primi anni 80 volle invitarmi nella sua casa poco prima di Natale (era il 1983 credo, non avevo ancora trent’anni) e mi accompagnò in giardino. Estrasse dalla terra alcune palme appena nate, e mi disse: “Piantale nel giardino, vegliale. Sono un pegno di amicizia”. Non disse parole così tonde come quelle che ho adesso stampate nella mente. Parlava di Dio con sommo rispetto, ma anche come se fosse famigliare quanto quelle piccole palme. Ho usato il congiuntivo imperfetto. Ma per lui Dio era (è!) l’indicativo presente, molto presente, sempre presente, una Presenza di sacramento eucaristico, di moglie amatissima (Vanda, di gentilezza sovrana) come il suo popolo, dentro il suo popolo.



Il suo capolavoro, che nel tempo, a occhi meno ostili al cattolicesimo, lo farà mettere accanto a Tolstoj e a Solzenicyn, è Il Cavallo Rosso. Le pagine più aspre e quasi maledicenti, sono riferite a una cittadina vicina a Besana Brianza il cui prevosto osò spostare il Tabernacolo dalla posizione d’onore dietro l’altare, in una nicchia laterale. Per lui Dio era Spirito Santo, ma questo spirito era incarnato, diventava ossa, lavoro, maglioni dei ragazzi dell’oratorio, dolore di fabbriche in malora.

Non voglio scrivere troppo a lungo. Ho l’idea chiara che i minuti dedicati a leggere le mie parole siano tempo rubato alla lettura dei suoi romanzi. Vogliono invece essere un trampolino per accostarvisi. Non bisogna farsi spaventare dalla mole. È un carico leggero, una drammatica soavità che aiuta a vivere.

Bisogna andare a casa di Corti per capire tutto questo. Andate ai funerali a Besana Brianza, ore 11, sabato. C’è l’odore buono della Brianza che è più grande della Brianza. Qualcosa che viene insieme o forse prima ancora dei pensieri; qualcosa per cui non so trovare altra definizione che la vita. C’è la vita della Brianza in quella sua villa di Besana Brianza. Il colore del giardino, di un verde che è solo brianzolo (brianteo si riferisce a uomini, brianzolo a cose: l’ho imparato da lui). L’ospitalità discreta, senza sfarzi né scene. La penombra. C’è un tipo di umanità unica lì: la quale è sì di Eugenio e Vanda Corti, ma che è espressiva dell’identità di una terra. La terra che non è solo la Brianza, ma che è la terra quando è benedetta da una presenza cristiana. 

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