La lettera di Francesco all’Onu è un atto fortissimo, perché insieme è formale e commosso. Dal secchio dove la Chiesa raccoglie il dolore del mondo, il Papa rovescia ai piedi dei potenti del mondo “le lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq”. Trae da quello strazio l’obbligo morale e giuridico di un intervento corposo, materiale, attivo, insomma militare (anche se non usa questa parola). Scrive proprio il verbo “costringere”, non c’è spazio per l’interpretazione riduttiva. Queste lacrime e sofferenze “costringono la comunità internazionale, in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, a fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose”. Fare tutto!



Che cosa fa il Papa? Chiede la guerra? Ma non è stato proprio lui pochi giorni fa a ripetere le parole dei suoi predecessori sulla “inutile strage” e che con la guerra “tutto è perduto”?

Quello che chiede il Papa è in realtà in perfetta linea con San Giovanni Paolo II. Nessuno come Papa Wojtyla agì per evitare scontri armati e “aggressioni” militari. Chiamò “aggressioni” quelle che Stati Uniti e Nato operarono contro l’Iraq nei decenni scorsi, a partire dal 1991. Eppure il pontefice polacco è colui che ha coniato il principio di “ingerenza umanitaria” o di “intervento umanitario”. Lo fece nel 1992 dinanzi alle stragi di innocenti a Sarajevo. Lo ripeté instancabilmente, e fu ascoltato purtroppo solo dopo l’orribile strage di Srebrenica del luglio 1995, quando il contingente olandese dell’Onu assistette con le mani in mano allo sterminio di 8.371 musulmani (e un cattolico, ho visto la croce isolata e bianca nel cimitero).



A quel punto si preparò l’Operazione Forza Deliberata (in inglese Operation Deliberated Force) che fu condotta nel settembre dalla Nato contro le forze della Repubblica Serba di Bosnia. In pochi giorni si arrivò alla pace di Dayton. Il Papa spiegò molto bene quel che chiedeva, e con quale cuore lo faceva, numerose volte. Andrea Tornielli in Vatican Insider ha fatto i conti: nei suoi discorsi e appelli per la pace, Karol Wojtyla ha parlato della Bosnia 263 volte, soprattutto durante la guerra (1992-95). Ero sull’aereo che portava Giovanni Paolo II in Giamaica, nell’agosto del 1993, quando noi giornalisti ci facemmo intorno e gli domandammo: Santità, che cosa pensa dell’ eventuale bombardamento Nato delle postazioni serbe attorno a Sarajevo?



Rispose San Giovanni Paolo (ed è bene la trascrizione letterale): “Questa domanda riguarda piuttosto le persone politiche. A me non hanno chiesto un parere. Però non sarebbe neanche utile chiedere questo al Papa. Perché c’è una responsabilità propria del pastore e una responsabilità propria dei capi politici. Allora essi devono prendere la loro responsabilità. Poi i pastori cercheranno sempre di mantenere i loro principi, principi della convivenza e dell’ ordine morale tra le persone, tra i popoli, nella giustizia internazionale. Ma l’applicazione dei mezzi politici e militari è una cosa che appartiene agli altri”. 

Si noti: non disse nulla contro l’uso della forza, non scomunicò neppure i bombardamenti. Gli facemmo presente che l’anno precedente, e proprio per la Bosnia, aveva coniato la dottrina dell’ingerenza umanitaria.

Replicò: “Questa ingerenza umanitaria io penso che è una cosa evangelica, in sé. Ma il modo di capire questo concetto può essere poco evangelico. Certamente se io vedo un mio vicino, concittadino o no, che è perseguitato e perde tutto, io devo difenderlo. Penso che questa difesa è un atto di carità. Così noi vediamo queste cose. E’ triste che ci siano questi fatti in Africa, in Europa, nei Balcani e specialmente in Bosnia. Ci dice San Paolo che si deve predicare a tempo e contrattempo. Si deve denunciare, si deve spiegare, si deve persuadere”.

Come si vede c’è perfetta identità di magistero. Negli ultimi giorni si erano levate critiche a Francesco, alcune sommesse (Bruno Vespa) altre veementi (Piero Laporta), perché mentre si martirizzano i cristiani in Medio Oriente, e a Ur dei Caldei, terra di Abramo, e proprio i caldei sono sterminati dai centomila feroci soldati dell’Is (Stato Islamico), lui se ne va in Corea del Sud. Ma la Corea del Sud è proprio stata una terra di martiri, e proprio lì si recò in analogo pellegrinaggio papa Wojtyla nel 1989.Anche Wojtyla rinunciò ad andare a Sarajevo nel settembre del 1994. Avrebbe messo a rischio non tanto la propria vita, ma quella di coloro che si sarebbero stretti attorno a lui.

Quali sono le cose che può fare l’Onu? Autorizzare un intervento, e la Nato, magari con la Russia e con paesi arabi volonterosi, cimentarsi in un intervento in tre mosse, come suggerisce lo stesso generale Laporta: 1) un intervento militare sul terreno che arresti l’assalto dell’Isis; 2) una massiccia operazione di aviotrasporto che porti lontano dal pericolo i più deboli, bambini, donne e vecchi; 3) una gigantesca operazione di soccorso umanitario sul terreno per nutrire, curare, dare un conforto a quanti non siano immediatamente trasportabili.

Ma questo non può essere il Papa a dirlo. Egli può predicare a tempo e controtempo per una pace che si regga sulla giustizia e sulla misericordia. Intanto si fermi la mano assassina. Con la preghiera e con l’azione. Ora et labora. E qualche volta il lavoro è (anche!) quello amarissimo delle truppe armate.