Il discorso di fine anno e di fine mandato ha certo intenti politici, e persino di politica politicante, dai quali qui è bene tenersi alla larga.
Ma ci sono parole che sono un po’ sparite nella considerazione generale, o al massimo espunte dai commenti e dalle sottolineature, quasi fossero merce retorica. Il riferimento corre a quella parte della conversazione del presidente della Repubblica in cui si immedesima con il messaggio di papa Francesco indirizzato per la Giornata mondiale della Pace.
Non sarà congruo rispetto alle regole del commento giornalistico, ma è buono e utile estrapolare i due minuti più intensi e di certo sottaciuti del novennato di Giorgio Napolitano. Eccoli.
“Il rischio di cadere in quell’indifferenza globale che Papa Francesco denuncia con tanto vigore è dietro l’angolo, anche da noi.
A quel rischio deve opporsi una sensibilità sempre più diffusa per le conquiste e i valori di pace e di civiltà oggi in così grave pericolo. La crescita economica, l’avanzamento sociale e civile, il benessere popolare che hanno caratterizzato e accompagnato l’integrazione europea, hanno avuto come premessa e base fondamentale lo stabilirsi di uno spirito di pace e di unità tra i nostri popoli. Ebbene, questo storico progresso è sotto attacco per l’emergere di inauditi fenomeni e disegni di destabilizzazione, di fanatismo e di imbarbarimento, fino alla selvaggia persecuzione dei cristiani. Dal disegno di uno o più Stati islamici integralisti da imporre con la forza sulle rovine dell’Iraq, della Siria, della Libia; al moltiplicarsi o acuirsi di conflitti in Africa, in Medio Oriente, nella regione che dovrebbe essere ponte tra la Russia e l’Europa: di questo quadro allarmante l’Italia, gli italiani devono mostrarsi fattore cosciente e attivo di contrasto. Ci dà forza la parola, il magistero del Pontefice che per la Giornata Mondiale della Pace si fa portatore di un messaggio supremo di fraternità, e ci richiama alla durissima realtà dei “molteplici volti della schiavitù” nel mondo d’oggi.
Farci, ciascuno di noi, partecipi di un sentimento di solidarietà e di un impegno globale – sconfiggendo l’insidia dell’indifferenza – per fermare queste regressioni e degenerazioni, è un comandamento morale ineludibile. E forse, facendoci lucidamente carico di quanto sta sconvolgendo il mondo, potremo collocare nella loro dimensione effettiva i nostri problemi e conflitti interni, di carattere politico e sociale ; potremo superare l’orizzonte limitato, ristretto in cui rischiamo di chiuderci“.
Nessuno aveva letto, tra i politici europei, ma forse neanche tra gli intellettuali, con tanta pertinenza il magistero del Pontefice, prendendolo così com’è, senza riferimenti a pensieri filosofici previ, e trasferendolo nella sfera della propria coscienza, e da lì indirizzarlo come appello a ciascun italiano.
In un commento assai profondo che ilsussidiario.net ha ospitato, a firma di Salvatore Abbruzzese, si metteva in luce che il Papa aveva chiamato ogni male e ogni sofferente per nome. Contro la “globalizzazione dell’indifferenza” Dio entrò subito in campo, sin dai primordi. Un attimo dopo il delitto di Caino, Dio è lì. E gli domanda conto del fratello Abele. E la risposta di Caino è esattamente l’anticipazione della antropologia oggi consacrata nella vita dei popoli. In alto, a livello istituzionale, e in basso: e per “basso” intendo in me che scrivo e in tu che leggi. La tentazione è quella. E che se viene contestata, lo è per dovere di moralismo senza sostanza di sacrificio in chi pure ne pronuncia la condanna. Caino disse: “Sono forse il guardiano di mio fratello?” (Genesi 4,9) “Ora tutto ciò – ha scritto Abbruzzese – sembra prodursi nell’indifferenza generale, fino a registrare una vera e propria ‘globalizzazione dell’indifferenza’. Una tale indifferenza non si produce solo al livello dell’uomo della strada, ma anche al livello delle istituzioni”.
Il Papa nel messaggio citò i bambini che “sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto degli organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale”. Ora Napolitano ci ridice che non possiamo rispondere come Caino. Non può farlo il leader politico sulla base dell’aspirazione ad un consenso basato sulla paura. Non può farlo il cittadino comune, salvo tradire quello che è scritto in ciascun cuore. Certo, la risposta di come alleviare le pene di Abele, di come impedirne l’uccisione, lo sfruttamento, la schiavizzazione non è scritta sul libro delle ricette di Cracco. Ma qui non è questione di soluzioni. Quelle verranno oppure no; saranno adeguate o meno. Ma la domanda, l’imperativo che riguarda l’essenza del nostro essere uomini è ineludibile.
Di questo dovremmo ringraziare il Capo dello Stato. E il modo per dirgli grazie è far rimbalzare le sue parole, sia tra quelli che gli sono prossimi politicamente sia tra quelli che non condividono la sua conduzione delle questioni istituzionali. C’è qualcosa di persino più profondo delle varie interpretazioni della Costituzione e dei doveri del capo dello Stato. Di certo esiste il dovere primario di non essere Caino e di non imparare nemmeno la lezione B di Caino, quella di non voler vedere il male e la nostra responsabilità.
Soprattutto andrebbe scritta e citata dovunque, in ogni sede, la descrizione di una realtà dinnanzi a cui il mondo è tragicamente inerte. Siamo tutti, anche i cristiani, come chiusi nella fortezza e la nostra unica preoccupazione, insieme a qualche lacrima per chi sta fuori e annega, è di tirare su al più presto possibile i ponti levatoi. E i nostri fratelli si arrangino, si salvi chi può.
Non è così. Siamo implicati. Non per provare sensi di colpa che non servono a niente, ma per creare ponti, allacciare legami. Almeno, come scrisse santa Tersa d’Avila: “Ya no durmáis, no durmáis, porque no hay paz en la tierra”. Non dormite, non dormite, perché non c’è pace sulla terra.
Neanche da vecchi, si può dormire. Grazie presidente per questo appello.