Lo hanno assolto. Ci avremmo scommesso. Viva la libertà di seminare odio con il lanciafiamme. Viva il diritto di mettere bombe ideologiche nel cuore dei ragazzi. Viva Erri De Luca.
Siccome ho idee diverse da Erri De Luca, ma mi piace molto l’idea di imitarlo, propongo di sabotare con furore allegro la sede della Feltrinelli che pubblica i suoi libri, e le librerie Feltrinelli ma anche le altre che li vendono. E’ bello ribellarsi al pensiero ribelle, in nome della ribellione continua che si attorciglia su se stessa. E se poi qualcuno lo fa davvero, che colpa ne ho? La parola non è azione, la parola non è mai reato. Lo dicono in America, dove c’è il famosissimo primo emendamento ossessivamente ripetuto dai serial tipo Law and Order, per cui ho il diritto di incitare al suicidio, persino quello di propagandare la superiorità della razza ariana, teorizzando qualunque cosa, anche la necessità etica dello sterminio. Purché non organizzi io i raid, reato non c’è, evviva la libertà.
I giudici di Torino hanno stabilito che lo scrittore napoletano, agitando la spada infuocata della rivolta violenta, ha onorato la Costituzione e la libertà di pensiero e di opinione, consacrata nell’articolo 21. Dunque da oggi in Italia è ufficialmente lecito, per sentenza di Tribunale, invitare la gente ad armarsi di attrezzi per praticare il sabotaggio contro chi, magari addirittura lavorando in un cantiere ferroviario, disturba il mio modo di concepire i treni.
Si noterà un certo sarcasmo in queste righe. In realtà sono serissimo e molto moderato. Consiglio prudenza. Fin quando si invita a sabotare cantieri edili popolati di carpentieri e sterratori in Val di Susa, il pensiero può volare libero e bello, ma è meglio tenerlo chiuso in gabbia se i medesimi concetti ribaldi vengono dedicati ai tribunali e alle toghe.
De Luca infatti, com’è noto, ha invitato al “sabotaggio” del Tav (sigla che sta per “treni ad alta velocità) in Val di Susa, ed è pure passato all’azione con sassi e altro, per sua stessa ammissione. Ma a Torino non era sotto processo per dei fatti, ma per la teorizzazione della liceità del metterli in atto, in nome del diritto al sabotaggio, che è un eufemismo per coprire con un mantello di ipocrisia la devastazione.
Certo. In un’Italia dominata dal giustizialismo e dall’idolatria delle manette, è sempre bello assistere ad un’assoluzione. Ma perché proprio questa assoluzione qui? Oltretutto De Luca, che è un fior di scrittore, neanche rischiava la galera. Mica è Giovannino Guareschi, De Luca. Mica se l’è presa con il capo dello Stato, lì sì che si rischia. Ha attaccato (con le parole sia chiaro, non vorrei che Erri mi querelasse per diffamazione, vincendo senz’altro) operai di pala e piccone, ruspisti, camionisti, poliziotti, carabinieri, baschi verdi della Guardia di Finanza.
Gente che non è mai stata al Quirinale, neanche dipinta. Per cui in caso di condanna, l’ex militante di Lotta continua non sarebbe finito in carcere. Se la sarebbe cavata con otto mesi con la condizionale, oppure sei mesi convertiti in sanzione pecuniaria.
Sarebbe stato meglio se l’assoluzione fosse piovuta in testa a Umberto Bossi, a cui hanno appioppato sul serio, e nel silenzio generale, la condanna per vilipendio del capo dello Stato Napolitano a cui in un comizio ha fatto le corna definendolo “terun”. Lì, condannona del Tribunale di Bergamo: diciotto mesi. Ovvio. Mica è un intellettuale, chi credeva di essere?
De Luca, alla vigilia del processo, ha scritto un piccolo libro: La parola contraria (Feltrinelli). Proclama: “In aula non vado a discolparmi, ma a mettermi di traverso alla censura che vuole la parola contraria su un binario morto”. La missione! Un missionario perseguitato! Fantastico.
Mi domando perché mai dovremmo rispedire al loro Paese o addirittura arrestare i seminatori islamici di odio. Con che diritto dovremmo prendercela con chi proclama la necessità di sgozzare la gente al calduccio del suo computer? D’ora in poi potranno sbandierare il lodo De Luca, come argomento di impunità.
In sintesi: riteniamo che i reati di opinione non vadano puniti. Salvo quando: 1) le parole costituiscono diffamazione di una persona o comunità, poiché in quel caso trattasi di character assassination, che fa versare sangue dalle anime, ed è persino peggio di una pugnalata vera, qualche volta. 2) quando lo scritto o il discorso è istigazione o apologia di reato, seminando odio e teorizzando azioni violente nell’immediata possibilità che si concretizzino.
La sentenza di ieri in realtà non assolve uno scrittore, lascia che possa scorrazzare in libertà l’incitazione alla violenza. La sentenza è essa stessa, al di là delle sicuramente dotte dissertazioni giuridiche che la supporteranno, parte di questo incitamento: dà nobiltà alla volontà di distruzione. Non va bene.