Il Papa va a Sarajevo. Ricordo ancora quando questa notizia si diffuse per la prima volta, nell’estate del 1994. Giovanni Paolo II voleva a tutti i costi portare la sua persona come un sacrificio per la pace. Era iniziata una tregua. Tutti dicevano che era una guerra religiosa triangolare. Musulmani (bosgnacchi), ortodossi (serbi), cattolici (croati di Herzegovina). Non era la religione ma il tradimento della religione, l’uso della religione, il pretesto della religione. Non Dio. Ma Dio era l’unico in nome del Quale poteva regnare la pace. Non poté andare. Gli fu impedito. Sarebbe stato sicuro un attentato. Magari non avrebbe ucciso il Papa, la bomba, ma tanti innocenti. Ricordo che, quando questa notizia fu diffusa, mi si fece vicino, eravamo a un festival politico, Adriano Sofri, e mi spiegò che sentiva dolore per me, che sapeva ci tenevo tanto ad accompagnare il Papa. Poi ci fu Srebrenica, con i suoi più di 8mila morti musulmani (e un cattolico).
La pace di Dayton, con la tripartizione della Bosnia Herzegovina e la capitale comune solo sulla carta, in realtà musulmana, Sarajevo. Infine Giovanni Paolo II arrivò lì il 17 aprile del 1997. Si trovarono bombe lungo il cammino. Il Papa incontrò le varie comunità. Ma mai insieme. Egli fece la più impressionante proposta divino-umana che esista: il perdono. L’unica via d’uscita era che qualcuno cominciasse a perdonare. E non cercasse un torto non ancora rimediato (tutti avevano subito torti).
Ora viene un altro Papa, a Sarajevo, sabato 6 giugno. Francesco ha innalzato il “perdono” a chiave-d’oro del suo pontificato. Misericordia, perdono: Cristo è questo. Il suo messaggio ha questa semplicità inerme. Papa Francesco ha inviato un videomessaggio alla comunità della Bosnia ed Herzegovina. Riprendendo il motto della visita, “La pace sia con voi”, il Papa sottolinea che è sua intenzione sostenere il “dialogo ecumenico e interreligioso” e la “convivenza pacifica” nel Paese. Usa un’altra espressione che colpisce chiunque dia peso alle parole: “convivialità”. Mangiare alla stessa tavola, dividere il cibo, spartire le preoccupazioni da uomini. “Vengo tra voi, con l’aiuto di Dio, per confermare nella fede i fedeli cattolici, per sostenere il dialogo ecumenico e interreligioso, e soprattutto per incoraggiare la convivenza pacifica nel vostro Paese. Vi invito ad unirvi alle mie preghiere, affinché questo viaggio apostolico possa produrre i frutti sperati per la Comunità cristiana e per l’intera società”.
Il frutto è la pace, ma lo strumento della pace è il perdono. Oggi la Bosnia-Herzegovina non è attraversata più dalla guerra delle bombe e degli sgozzamenti. C’è una guerra spenta, un odio sotterraneo, una burocrazia schifosa. Sembra un incaprettamento. Ci sono forze multinazionali per custodire una pace che più che altro somiglia a una tregua. Ma la presenza di quelle truppe è anche una risorsa economica per tutti.
Dunque, quasi quasi, conviene a tutti che regni il dissidio, così restano i soldati dell’Onu e i benefici conseguenti. Le grandi sovvenzioni di un’Europa che si sente in colpa per non aver fermato le stragi non alimenta sviluppo ma corruzione. Sono stato in quel Paese come osservatore per le elezioni politiche. Il regime che si è instaurato non è democratico pluralista, ma islamico. C’è libertà di culto. Ma la vita pubblica, le leggi, l’educazione sono a forma coranica. Non c’è una vera pace, perché non c’è giustizia.
Detto questo, guai a dimenticare gli eccidi. Sono stato a Srebrenica: il cimitero è una sequenza tremenda e geometrica. Ci sono migliaia di tombe islamiche e una piccola croce. Tra le migliaia di musulmani uccisi a sangue freddo (8mila) finì infatti nel mucchio degli assassinati anche un cattolico croato. Ho visitato l’hangar dove se ne stavano, senza far niente, i militari olandesi dell’Onu. Tanti pensieri percorsero allora la mia mente. Pochi mesi prima dell’eccidio, avvenuto nel luglio del 1995, mi ero incontrato con quelli che saranno poi accusati di questa immane strage. E cioè il generale Ratko Mladic e Radovan Karadzic. Non vidi in loro nessun lampo di follia o di volontà criminale. Ragionavano di diritti e doveri, di amore al proprio popolo. C’era la tregua allora, e fui fatto viaggiare bendato per chilometri nella neve, onde non scoprire dove mi sarei recato. Karadzic era famoso, specie per la sua folle capigliatura. Mi disse che la sua parrucchiera era cattolica, poi si fece serio e disse che dopo la fine della guerra ci sarebbero stati molti suicidi, perché tutti avrebbero guardato in faccia l’orrore a cui avevano assistito, ma specialmente i vecchi non avrebbero sopportato. Esattamente ciò che si è verificato.
Ora il Papa arriva a Sarajevo. Cerca la pace qui. Nel 1914, un secolo fa, fu qui che scoccò la scintilla della prima guerra mondiale. La sanguinosa guerra degli anni Novanta tra serbi, musulmani e croati è stata congelata dagli accordi di Dayton del 1995, ma a prezzo della creazione di una burocrazia elefantiaca che soffoca il Paese. E così, spente le luci sul centenario della prima guerra mondiale, la Bosnia rimane al palo della crescita, mentre sotto la cenere cova il fuoco della protesta. C’è un fossato quasi invalicabile, anche se non ci sono frontiere formali, tra la Sarajevo musulmana e quella serbo-ortodossa. Altre immagini sono però cariche di speranza. C’è la scuola cattolica “Sveti Josip”, unica realtà multi-etnica della capitale, accoglie studenti delle tre confessioni religiose. Nell’incontro, nella “convivialità” non nel dialogo astratto a tavolino, ma a tavola, è possibile trasformare la richiesta di perdono e di giustizia in realtà di misericordia vissuta nella condivisione.
Giovanni Paolo II viaggiava e molta folla si radunava. Qualche volta ci sono stati frutti immediati e rigogliosi (nell’Est Europeo, a Cuba, in Cile), altre volte la sua testimonianza è stata apparentemente sconfitta dalla guerra (vedi il Rwanda e il Sudan). C’entra la libertà degli uomini. Ma la potenza spirituale dei segni, di una presenza fisica, misericordiosa e inerme, resta un seme misterioso, marcisce, poi fruttifica. Ora Francesco continua questo lavoro magnifico.