Nessuna predica, nessuna emozione da trasmettere. Troppe per esprimerle. Mi congelo a forza. E provo un’analisi.
A Berlino è stato travolto un mercatino di Natale con un camion, sullo stile di Nizza. Quanti morti? Mentre scrivo, almeno 9. Una strage europea. Non si fa differenza tra potenze egemoni (la Germania) e quelle più fragili (Belgio, Francia). In Italia paradossalmente siamo protetti dal Papa, che pure è il simbolo da abbattere per eccellenza: non si sentono pronti, per ora, a colpire noi, sotto quella protezione che impressiona anche parecchi musulmani che amano più la preghiera della morte altrui.
Chi era il bersaglio? Tu ed io. Io e la mia famiglia senz’altro. Siamo di quel popolo lì. Gente che beve il vino caldo, indossa il cappellino di Babbo Natale con le campanelle, morde la mela rossa dell’amore, guarda i prezzi delle statuine di plastica dei presepi. Inutile nasconderlo: era prevista un’aggressione sanguinosa a una fiera di questo tipo, gioiosa, legata alla festa cristiana per eccellenza. Si pensava che il bersaglio dovesse essere Strasburgo o, in alternativa un’altra città dell’Alsazia, Colmar. I luoghi più famosi e affollati. La polizia francese aveva arrestato a Strasburgo alcuni potenziali attentatori intorno al 20 novembre. Immediatamente sono partite le misure estreme di sicurezza. Il 25 novembre, primo giorno di avvento, apertura dei mercatini, improvvisamente era stato deciso il blocco totale delle città citate al traffico. Da un momento all’altro. La vettura della mia famiglia un attimo prima era parcheggiata in una piazzetta con tanto di biglietto a pagamento, dieci minuti dopo è stata portata via dal carro attrezzi per improvvisa decisione del prefetto.
La dissuasione ha funzionato vicino alle cattedrali gotiche, due ore per entrare a Strasburgo, nessun lamento: tutti sappiamo, accettiamo, viviamo.
Ed ecco invece Berlino.
Necessaria l’unità europea. Nessuno pensi che una nazione da sola ce la possa fare.
Poche ore prima la Turchia. Ankara e Berlino. Siamo davanti a due attentati diversissimi salvo nel colore del sangue, ma di matrice simile: jihadismo senza confini, con variegate tattiche, in funzione della strategia del terrore universale.
In Turchia a colpire è stato un poliziotto di 22 anni, un killer addestrato, nulla a che fare con cinture esplosive, spari nel mucchio. Bersaglio individuato in un capo riconosciuto dei nemici dell’islam combattente: l’ambasciatore russo ad Ankara. Il grido di vendetta per Aleppo, pronunciato dal terrorista, dice che si tratta probabilmente di un uomo di Al Nusra, cioè di Al Qaeda, la quale è la principale forza che occupa, anzi occupava, la città siriana, e non pareva più in rapporti di alleanza sinergica con il Daesh, lo stato islamico.
La vendetta contro la Russia significa che le forze di Putin hanno vinto su quel territorio, ed è una buona notizia. Aleppo sembra Berlino nel 1945. Devastazioni infinite. Morti innocenti. Allora si sradicò il nazismo e furono eliminati i suoi capi. Ma oggi la guerra non funziona più così. Il nemico colpito, riappare da un’altra parte. Di certo l’islam jihadista non si arrende, e rivela la sua penetrazione in unità addestrate che dovrebbero garantire la sicurezza, e invece si rivelano essere permeabili ai combattenti.
Che fare? La domanda è legittima ma è un affare di capi, autorità, strateghi. Finora costoro hanno solo pasticciato, si sono divisi, hanno colpito a casaccio, in base a interessi meschini. Diamo atto che in Italia l’antiterrorismo ha funzionato, ed oggi al ministero dell’Interno c’è un Marco Minniti che conosce le sorgenti del male e sa isolarle.
La domanda appena pronunciata è però meno decisiva di quelle che implicano il profondo di noi stessi. Chi siamo? Che cosa ci è caro? Che cosa vogliamo difendere? Che prezzo siamo disposti a pagare per la libertà? Le scrivo non per pretendere risposte, ma almeno perché non lascino in pace me.