Si è aperto ieri, finalmente, al Tribunale arbitrale internazionale dell’Aja il dibattimento sul caso dei due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Il caso marò, come si dice. Dopo quattro anni dall’inizio della vicenda non siamo al processo, ma ai preliminari di un procedimento che deve stabilire dove i due militari italiani vadano processati.



Chi scrive ha seguito la vicenda, anche nelle sue pieghe riservate, come componente della commissione esteri della Camera, che veniva informata con vincolo di segreto da Staffan de Mistura, allora sottosegretario, incaricato di trattare la vicenda da parte del governo italiano.

Lo posso fare adesso, perché la fase delle trattative tra governi è conclusa da tempo, e non si viola niente, ma forse si giova alla causa della verità. Mai, e dico mai, da parte italiana c’è stata mala fede. Sempre e comunque i due marò hanno comunicato la certezza di non aver mirato in nessun caso per colpire chicchessia. Sempre, tutti i deputati, e dico tutti, qualsiasi fosse la componente politica, hanno avuto piena consapevolezza che i due godevano dell’immunità di funzione, riconosciuta a qualunque attore armato si trova ad esercitare un compito concordato a livello internazionale.



Detto questo, quante sciocchezze e leggerezze e dilettantismi da parte delle autorità italiane. 

Anzitutto è un dovere riferire qui i due nomi dimenticati, almeno in Italia: quelli dei due pescatori indiani, del Kerala, due cattolici, uccisi da colpi di mitraglia il pomeriggio del 15 febbraio 2012 a più di venti miglia dalla costa. Si chiamavano Valentine Jalstine e Ajesh Binki. Il peschereccio su cui erano a bordo si avvicinò alla Enrica Lexie, vigilata da una squadra di sei fucilieri in funzione anti-pirateria, per vendere pesce fresco. Ci fu un errore di comunicazione e i due rimasero uccisi. Un’inchiesta condotta da un giornalista onesto e bravissimo, come Toni Capuozzo, è arrivata alla conclusione che non solo c’è stata buona fede da parte di Girone e Latorre, ma che i due pescatori sono morti a causa di colpi partiti da un’altra nave. E che gli inquirenti indiani hanno dunque agito malamente o in cattiva fede.



Perché dalla Marina, ad alto livello, è giunta l’autorizzazione al comandante civile della Enrica Lexie di entrare in porto e di consegnare i due marò alle autorità indiane? Com’è possibile che la nostra intelligence presente in India non abbia vivamente sconsigliato questo ingenuo atto di fiducia? Perché si è cercato di risolvere la grana a livello politico, invece che porre immediatamente la questione a livello di arbitrato internazionale, evitando di trattare un grande Paese come una terra lontana dallo Stato di diritto, quasi che i magistrati dovessero obbedire ai politici?

Dopo di che, quando i nostri due marò hanno avuto una licenza di rientro, si è messa davanti la ragion politica su quella umanitaria e dei diritti fondamentali e li si è rispediti in India, in balia di una giurisdizione che a parole non riconoscevamo.

Finalmente, dopo quattro anni, eccoci al primo passo.

L’India rifiuta di lasciar rientrare in patria, nell’attesa di una decisione che richiederà 4 (quattro!) anni, Salvatore Girone (Latorre è a casa per ragioni di salute). Ed è un fatto prevedibile ma ugualmente sconcertante. Un uomo non può essere dato in ostaggio, quale pegno, in attesa di una decisione di arbitrato internazionale. Questa cosa si usa tra briganti, non nel concerto delle nazioni.

A questo punto davvero conviene giocare le carte della forza diplomatica. E’ in corso una trattativa complessa tra Unione Europea e India, e l’Italia può porre veti, e non sarebbero ripicche, ma la conseguenza della dimostrazione dello spregio dei principi basilari della civiltà che New Delhi sta esibendo all’Aja. Ancora, l’Italia può impedire l’accesso all’India a un importante strumento internazionale sugli armamenti atomici.

Vale anche qui il principio del diritto, e l’uso della forza diplomatica dev’essere praticato senza scrupoli. C’è in ballo il destino di una persona e della sua famiglia. Ed è pure questione del rispetto dell’Italia per se stessa e la sua gente.