Dopo Istanbul ora Dacca. Sono metropoli islamiche, entrambe hanno circa 15 milioni di abitanti. La prima ai confini con l’Europa, anzi già Europa. La seconda è Asia monsonica, si affaccia sui mari caldi. Vengono dopo gli attentati, passati sotto silenzio, perché ci siamo abituati, a Kabul, e in grandi città dell’Iraq. Ma queste città sono parenti di Bruxelles, Parigi, e certo ne scordiamo qualcuna tra le capitali del mondo. Hanno una cosa in comune: segnalano tutte la presenza di un esercito che sta combattendo una guerra mondiale che ormai non si può proprio più dire a pezzi. Il califfato ha una presenza capillare in tutto il globo, che è un piccolo villaggio. Mentre scrivo sto seguendo in diretta su internet la concitata cronaca di una televisione del Bangladesh. Come chi scrive, seduto davanti al suo computer, ci sono persone di ogni tipo, e siamo tutti seduti insieme. Non ci sono distanze. A questo tavolo comune ci sono anche i terroristi che guardano con soddisfazione questo spettacolo realizzato in un bar elegante, nel quartiere delle ambasciate della megalopoli bengalese.
Perché faccio questa riflessione? Perché oggi è impossibile pensare che possano essere dei confini di Stato, e neppure truppe di poliziotti e di contractor a tutelare gli indifesi, disoccupati e uomini di affari. Altro che muri. Dove lo costruisci il muro: nei bar? Invece, a dispetto di questa vicinanza che non è solo mentale ma realissima, perché la comunicazione è un fatto reale, affrontiamo queste vicende come se riguardassero entità lontane. Ce ne accorgeremo, se sono lontane.
Dobbiamo renderci conto che la guerra scatenata dal Daesh è certo nutrita da una lettura sconclusionata del Corano e della tradizione di tanti musulmani, ma è una minaccia immensa che nuota senza trovare ostacoli nella moltitudine di un miliardo e seicento milioni di fedeli del Profeta. E nell’altro miliardo che vive nell’ateismo relativista, nella nullificazione del valore del proprio io e di quello del prossimo: parlo di noi.
Intanto una constatazione: non c’è nessuno che, dentro quel mondo che grida “Allah Akbar”, paia in grado di fermare questa massa cancerosa che si riferisce a Dio e onora senza saperlo il Diavolo.
Erdogan, il presidente turco, urla: “Lo stato islamico tradisce l’islam”. E ha certo ragione. Ma se l’esempio è la sua idea di libertà stiamo freschi. Ha fino a pochi mesi fa tollerato il contrabbando di petrolio che dalla Siria è servito a rifornire di denaro questa guerra contro l’umanità, e quel califfato che ha di mira chiunque si discosti dalla lettura fanatica del Libro che per i suoi seguaci è Dio stesso, non soggetto ad alcuna interpretazione, ma sventolato come manifesto della morte propria e altrui.
Oggi il Daesh sta subendo pesanti sconfitte, l’avanzata che pareva inarrestabile, quanto a conquista del territorio in Asia Minore e in Libia, si sta trasformando in una Caporetto. Ma non significa affatto resa, bensì ritirata strategica, che coincide con lo spostamento delle risorse e delle energie distruttive fuori dai confini. Con due scopi: demoralizzare chi pensava fosse almeno l’inizio della fine della Jihad e scopre invece che è solo la fine dell’inizio; e uno propagandistico, consistente nell’attirare con successi orribili nuovi seguaci e catturare il tifo di fasce larghissime di giovani islamici di ogni parte del mondo. Questi ragazzi non hanno un Papa che apra le porte della misericordia, non hanno nessun autentico leader musulmano pacificatore che abbia un fascino anche lontanamente paragonabile a quello di Osama Bin Laden, eletto a mito che veglia dall’aldilà sui kamikaze, e quello vivente di Abu Bakr al Baghdadi.
Di certo, più che mai, occorre una grande alleanza non solo delle potenze politiche e militari contro questo totalitarismo pseudo-religioso, ma anche e soprattutto delle potenze spirituali inermi e miti, eppure forti; una fraternità ecumenica delle famiglie religiose e ideali che hanno a cuore la vita buona e una speranza per i propri figli. Ma oggi se i terroristi islamici fanno coincidere la missione della loro vita con l’assassinio per affermare e allargare la “Casa dell’Islam”, quanti sono (anzi siamo) disponibili a dare la vita per un ideale che somigli all’amore che pure vediamo all’opera tra i nostri santi sconosciuti o famosi?
Dio voglia e ci aiuti ad attingere alla testimonianza dei cristiani martiri, che danno la vita senza toglierla. Ai nostri fratelli di Aleppo, che misteriosamente con il loro esempio, la loro preghiera che diventa comunione, riescono a stringere a sé anche tanti musulmani che rifiutano di accettare il Corano delle bandiere nere.
Prepariamoci ad altri sacrifici cruenti. Senza terrore, ma provando a guardare e a seguire chi tiene alta la fiaccola di qualcosa di più bello e più forte del potere dell’uomo sul povero.