Compie cinquant’anni il filone del cinema catastrofico. Ricorre infatti l’anniversario dell’uscita di L’inferno di cristallo (The Towering Inferno) di John Guillermin, prodotto e supervisionato da Irwin Allen, cui si deve la paternità registica delle numerose scene d’azione. Abilmente sceneggiato da Stirling Silliphant a partire da due romanzi popolari in Usa in quegli anni (La torre di R. M. Stern e L’inferno di cristallo di F. M. Robinson e T. N. Scortia), il film, pur non essendo il primissimo di tale filone – tralasciando il sottogenere della fantascienza apocalittica presente fin dagli anni Cinquanta – è quello che più di altri (più dei precedenti Airport del 1970, e L’avventura del Poseidon del 1972) ne fissa gli stilemi vincenti.
La storia è semplice, la situazione iniziale apparentemente neutra: a San Francisco è in programma la cerimonia di inaugurazione del grattacielo più alto del mondo, che si svolge ai piani attici dello stesso con la presenza delle autorità del luogo e circa trecento vip, convenuti per la solenne occasione. Sul più bello scoppia un incendio che tiene intrappolati i malcapitati alla sommità dell’edificio: saranno il capo dei vigili del fuoco (Steve McQueen) e l’architetto progettista del grattacielo (Paul Newman) gli eroi occasionali che, dopo svariate peripezie, salveranno gran parte della combriccola.
Con misurata perizia gli autori applicano al film perfettamente, in modo quasi letterale, il concetto di low burning mutuato dalle comiche mute slapstick degli anni Venti, quelle di Laurel & Hardy soprattutto. E cioè: da un’iniziale situazione di piccolo “conflitto” nasce un crescendo di azioni e reazioni che poco alla volta diventano sia il motore che il fine di tutto il film. Per le comiche poteva trattarsi di un banale espediente: ad esempio, trovare un portafoglio pieno di dollari per strada e cercare di restituirlo venendo scambiati per un ladro. Allo stesso modo, ne L’inferno di cristallo è un piccolo cortocircuito in un magazzino ai piani intermedi, che contiene materiale infiammabile, a provocare un limitato incendio che poi cresce fino a essere il motivo narrativo-strutturale di tutto il film.
Come detto, L’inferno di cristallo, anche per via del grande successo di pubblico che conobbe, è il disaster-movie per eccellenza, quello che ebbe il merito di settare una volta per tutte lo standard di tali produzioni filmiche, mettendo in campo alcune caratteristiche che saranno poi ricorrenti nelle produzioni successive, di impatto visivo ed emotivo vincenti presso il pubblico. Caratteristiche ricorrenti perfino nei film catastrofici di taglio comico-parodistico, come nella serie inaugurata da L’aereo più pazzo del mondo (1980).
La principale è quella della suddetta struttura a inizio low burning, che serve agli autori anche per fare una sorta di panoramica sui personaggi principali e sui loro rispettivi ruoli. Gli stessi che poi, iniziata la catastrofe, si renderanno protagonisti di gesti eroici o pusillanimi, furbeschi o auto-conservativi a scapito della salvezza altrui.
Altro must di questi film, dovendo essi seguire le personali vicende di tanti personaggi con rango di semi-protagonisti, è quello di riunire un ampio cast di buoni caratteristi a fianco dei due/tre veri protagonisti, possibilmente con qualche stella sul viale del tramonto. E da questo punto di vista L’inferno di cristallo è forse il migliore, dato che oltre ai citati McQueen e Newman ci sono William Holden, Faye Dunaway, Fred Astaire, Jennifer Jones, O.J. Simpson, Robert Wagner, Johan Crawford e altri meno celebri ma di spessore comparabile.
E proprio le sotto-trame che narrano le vicende dei vari personaggi cui la catastrofe sottrae (temporaneamente o per sempre) la libertà di scelta e/o movimento rappresentano un altro must del filone. Il quale must si fa carico anche degli obiettivi tematici che il film si propone. In generale essi sono due: quello spettacolare e quello di carattere socioculturale, derivante dalla reazione delle varie tipologie antropologiche alla situazione estrema di emergenza. Non a caso la location ideale per queste storie è sempre circoscritta in un luogo chiuso (grattacielo, in questo caso, oppure aereo in volo, nave in mare aperto, isola sperduta ecc.), in quanto funzionale allo scopo cultural-entomologico suddetto. Come reagirà di fronte all’emergenza il coraggioso, il pavido, il fatalista oppure il gradasso interessato solo se stesso? In modo coerente alla propria estrazione sociale oppure no? L’idea di base è la stessa del racconto di John Steinbeck che Alfred Hitchcock traspose al cinema nel suo Prigionieri dell’oceano del 1944.
Infine, l’Oscar vinto dalla canzone guida del tema musicale, il brano We May Never Love Like This Again di Al Kasha e Joel Hirschhorn, sottolinea un’ulteriore nota comune in tale tipologia di cinema: l’utilizzo di musica suggestiva per accompagnare le parti romanzate di interludio tra le varie scene d’azione, come accadrà anni dopo anche per il Titanic di James Cameron (1997).
L’inferno di cristallo si segnala allora come un ottimo prodotto dell’industria dell’intrattenimento, che ripropone uno dei grandi temi-impulsi che il cinema tutto ha in sé medesimo da sempre: l’immedesimazione nei personaggi. Cosa faremmo noi nelle stesse circostanze apocalittiche narrate nel film? A ognuno la sua personalissima risposta. Ciò che più conta per il suo successo, e per una sua fruizione gratificante da parte dello spettatore – fattore troppo spesso sottovalutato dalla critica europea – è che l’eroe sia bello e aitante, alla fine sia salvo e impavido artefice della salvezza di altrettanti come lui (belli e meritevoli), che gli eventuali cattivi soccombano e i pusillanimi si redimano. Purtroppo (o per fortuna, scegliete voi) accade solo nel mondo dorato del cine-colossal hollywoodiano.
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