C’è una lista lunghissima di economisti che da anni scrive articoli e libri per spiegare quanto siano strutturali i difetti dell’Unione Europea, quanto siano incomprensibili le regole su deficit, Fiscal compact e output gap e quanto queste regole abbiano trasformato crisi in recessioni vere e proprie in Italia e ancora oggi le impediscano qualsiasi serio programma di rilancio, condannandola a un circolo vizioso da cui non può uscire. Ieri è stato Paul Krugman a “retwittare” un articolo del Financial Times in cui gli economisti interpellati non potevano non dire che le richieste italiane “all’Europa” non siano affatto campate in aria. Vi risparmiamo il contenuto e vi proponiamo solo il titolo: “Gli economisti supportano Salvini nella sua disputa sulle spese di Roma”.
Sulla stessa linea segnaliamo quanto scritto sul Telegraph il 29 maggio da Ambrose Evans-Pritchard che bolla come folle l’iniziativa dell’Unione Europea contro l’Italia in questa fase del contesto globale. Questo mentre in Italia una schiera di sedicenti economisti ed esperti di una mediocrità assoluta cerca di convincerci che le regole dell’Europa sono la perfezione e l’unica cosa che ci manca è un viceré francese o un feldmaresciallo tedesco che ci faccia risparmiare i soldi delle elezioni.
Se qualcuno vuole possiamo segnalare economisti che hanno lavorato all’Ocse, alla Federal Reserve di New York, che insegnano a Yale e alla Columbia che non si capacitano delle regole europee, di come è stata affrontata in Europa la crisi post-Lehman e di come ancora oggi, soprattutto nel contesto internazionale attuale, quello della guerra commercial Usa-Cina, si pensi di poter obbligare l’Italia a un deficit assurdo. Invece, ogni ragionevolezza suggerirebbe l’esigenza di favorire le imprese e spendere per infrastrutture in un Paese con la disoccupazione in doppia cifra, oltretutto “lenita” da un fenomeno di migrazioni di giovani italiani che in altri Paesi europei, per esempio la Francia, non avviene anche per motivi “culturali”.
Le mitiche riforme strutturali, dopo l’abolizione del contratto a tempo indeterminato e privatizzazioni che non hanno paragoni in Europa, come ci ricorda in questi giorni la presenza dello Stato francese in Renault, dovrebbero concentrarsi sulla Pubblica amministrazione. Ogni italiano ha una lista lunga di spiacevoli episodi con una burocrazia che è punitiva per gli onesti; un’amministrazione pubblica deresponsabilizzata inclusa quella del sistema giudiziario. È l’approccio secondo cui chiunque voglia costruire mezzo metro di strada è un delinquente fino a prova contraria. Guardate il panorama politico italiano e cercate chi incarna questo approccio. Quello delle opere pubbliche bloccate o che ci mettono decenni per partire per assicurarsi che non ci sia alcun “malaffare”.
Poi c’è il problema di “sistemare” una classe politica che ha governato in Italia per 30 anni dipingendo l’Europa e le sue regole come la terra promessa dell’Italia e che su questo mito ha giustificato la resa incondizionata degli interessi italiani in Europa, spesso instillandoci il dubbio anche di tanta malafede. Siamo stati in Europa con un approccio ideologico che non ci ha fatto vedere la realtà degli interessi nazionali che, giustamente, usavano l’Unione Europea. Ma per questo errore ci sono responsabilità precise.
Oggi si nota una grande parte dell’élite di questo Paese, quella impresentabile agli occhi degli elettori per via degli errori di cui sopra ma che deve continuare a difendere il mito di un’Europa che non esiste nei fatti, né nella storia dell’Unione Europea, la quale pur di non scomparire fa il tifo spudorato per lo “spread”; sia per calcoli politici di basso livello, sia per mantenere in vita l’ideologia di un’Europa in cui la Francia di Macron rispedisce indietro i migranti con le suole delle scarpe tagliate.
Discutiamo pure di tutto, di migranti e di Unione Europea, ma smettiamo di continuare a prenderci in giro con la difesa di regole assurde, fuori dalla storia e che oltretutto inquinano il dibattito sull’Italia e in Italia. Quello che fa paura è che l’Italia faccia deficit per politiche assistenziali senza senso e non, come è giusto, per shock fiscali o infrastrutturali oppure per trasformare un’amministrazione pubblica, incluso il sistema giudiziario, che è identica nell’approccio, nel funzionamento e nella responsabilizzazione a quello degli anni 80 e che comprensibilmente non vuole cambiare.