L’intelligenza è una maledizione? Un articolo apparso sull’inserto Salute del Corriere della Sera ha analizzato la questione, prendendo spunto da varie ricerche e pareri, ed è arrivato alla conclusione che avere un QI più alto della media (che è di 100, mentre qui si parla di chi supera 120) può creare parecchi problemi. Anticipiamo subito che la tesi dell’articolo contempla in ogni caso “diverse” intelligenze: viene citato infatti Gioacchino Tedeschi, presidente della Società Italiana di Neurologia, che afferma come “ognuno di noi può essere intelligente in qualche aspetto”. Infatti, come si legge nell’articolo, intelligenza può significare risolvere un problema matematico ma anche catturare una preda nella giungla al fine di sfamarsi; e viene riportato il fatto che oggi i test di intelligenza hanno lo scopo di assegnare punteggi a vari gruppi di abilità, non racchiudendoli in una unica materia o competenza perché “il fattore di intelligenza generale” dice sempre Tedeschi “è quello che unifica i disparati obiettivi dei diversi test”.



La tesi sull’intelligenza come problema prende invece spunto dal QI, nato agli inizi del Novecento e che valuta in particolar modo l’intelligenza logico-matematica o magari quella verbale. Ecco: riguardo questo, si dice che chi abbia un quoziente intellettivo particolarmente alto fatichi maggiormente a comandare. Perché? Il motivo è spiegato: spesso e volentieri il suo linguaggio è particolarmente complesso, così da impedirgli di non farsi capire dai dipendenti (non riuscendo a semplificare le sue richieste) e soffrendo se qualcuno trova complicato quello che per lui è invece un problema banale. Insomma, l’intelligenza non crea un leader migliore, non necessariamente; anzi, è più facile che un QI alto corrisponda a una vita più solitaria. Lo spiega bene Satoshi Kanazawa (London School of Economics) che ha studiato più di 15 mila persone comprese tra 18 e 28 anni: ebbene, i più intelligenti sembrano essere anche quelli le cui relazioni sociali sono meno ampie e diffuse.



ESSERE INTELLIGENTI RENDE SOLI?

Per spiegare il concetto, Kanazawa si è rifatto ai nostri antenati: i quali sopravvivevano “grazie all’aiuto degli altri in gruppi-tribù di media grandezza”. Ora, secondo lui il nostro cervello si è adattato a quello schema sociale tanto che ora il comportamento naturale è quello di cercare la felicità con la compagnia e la presenza di amici; i super-intelligenti invece sono più soli, perché anche in passato sono sempre stati in grado di risolvere da soli le sfide della vita. Nello studio allora si osserva anche come le persone più intelligenti vivano in città (ovviamente nella media) piuttosto che in periferia o in contesti rurali: contesti che sarebbero considerati più difficili, dunque rappresenterebbero una sfida per l’uomo “comune” ma non per gli intelligenti. L’altro studio di cui parlavamo è quello di Anders Ericsson, docente di psicologia presso la Florida State University, che ha aggiunto un punto alla tesi di cui sopra: secondo lui le persone intelligenti sono attratte dalla solitudine anche perché rappresenta un vantaggio, non dovendo perdere tempo con le relazioni umane e potendo di conseguenza coltivare maggiormente i loro interessi.



Infine, l’articolo cita anche The Intelligence Trap, volume scritto recentemente da David Robson e il cui titolo è abbastanza chiarificatore: vi si legge che un QI più alto della media può far prendere decisioni poco razionali (per esempio svuotare più in fretta la carta di credito) e che il quoziente intellettivo, in generale, non possa misurare tutto quello che serve per scegliere sempre il meglio. L’autore del libro porta a esempio bambini con un QI che possono soffrire maggiormente degli altri, perché su di loro ci sono aspettative troppo alte e spesso grandi obiettivi non raggiunti significano per loro andare incontro a fallimenti, secondo il “giudizio” che di loro viene dato dall’esterno.