Viaggio in India per il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Uno dei temi affrontati è quello della presenza di investitori indiani nella siderurgia italiana. Jindal ha già rilevato una parte del sito industriale di Piombino e sarebbe interessata anche all’Ilva di Taranto. In entrambe le situazioni, però, ci sono problemi da risolvere per rilanciare la produzione siderurgica. Lo spiega Antonio Gozzi, presidente di Federacciai. A Piombino mancano investitori per il progetto da 2 miliardi e mezzo sui prodotti piani; a Taranto, l’intransigenza green dell’Europa sta imponendo condizioni irrealizzabili che, di fatto, allontanano i potenziali investitori.
Che significato ha il viaggio del ministro Adolfo Urso a Mumbai e che ruolo può avere l’India per la siderurgia italiana?
L’India è un grandissimo Paese, con un miliardo e 400 milioni di abitanti e una siderurgia che produce 150 milioni di tonnellate l’anno. Se pensiamo che la Cina ha lo stesso numero di abitanti ma produce un miliardo di tonnellate l’anno, si capisce quale sia il grande potenziale di crescita nella domanda interna di acciaio in India, dove il consumo pro capite è sette volte più basso di quello cinese. Hanno minerali di ferro, ma non carbone; è probabile che produrranno acciaio (potrebbero arrivare a 200 o 300 milioni di tonnellate in più nei prossimi cinque o sei anni) con processi meno impattanti dal punto di vista della CO2.
Chi sono i protagonisti del mercato in India?
I due soggetti più importanti sono Tata Steel e Jindal. I fratelli Jindal sono tre: uno si occupa di tubi di ghisa, un altro, il più vecchio, ha costruito in India una produzione da 20 milioni di tonnellate, pari quasi a quella italiana, mentre il terzo, il più giovane, è l’operatore che ha espresso una manifestazione di interesse per l’Ilva.
Cosa può dare l’India all’Italia?
Oggi la presenza di Jindal a Piombino è molto importante perché ha rilevato la parte relativa ai prodotti lunghi, in particolare alle rotaie, e sta facendo un investimento significativo. Si tratta di operatori che conoscono bene la siderurgia e sono internazionalizzati: sono presenti negli USA e anche in altri Paesi.
Jindal aveva già cercato di operare in Italia, ma senza fortuna. Come mai?
Andò male la prima corsa all’Ilva, con la cordata insieme ad Arvedi, Del Vecchio e Cdp, cui fu preferita Arcelor Mittal. Con il senno di poi, fu una scelta sbagliata. Un confronto fra due indiani, anche se vinse quello che poi non ha dato buona prova di sé a Taranto, pur con molti alibi. L’impressione che abbiano avuto tutti è che, almeno nel secondo periodo, si sia fondamentalmente disimpegnato. Gli altiforni non funzionavano e sono stati probabilmente danneggiati da un uso discontinuo, perché Mittal non metteva più a disposizione la finanza per comprare materia prima.
Jindal è presente a Piombino e potrebbe esserlo a Taranto, quindi può svolgere un ruolo fondamentale nella siderurgia italiana?
Difficile dirlo. Piombino, per quanto importante, produce 200-300 mila tonnellate di rotaie, mentre l’Italia oggi, nei prodotti lunghi, supera i 15 milioni di tonnellate, realizzate da forni elettrici, di famiglie italiane, che hanno il record di decarbonizzazione nella produzione di acciaio. Non esiste Paese al mondo che produce acciaio con forni elettrici all’85%. È un record mondiale: le emissioni sono dieci volte inferiori a quelle di un altoforno.
Quando Piombino viene presentato come un grande polo siderurgico europeo nella transizione green, quindi, non si sbaglia?
Intanto, per ora a Piombino c’è solo il treno a rotaie di Jindal, un investimento di rinnovo di più di 100 milioni che però non è stato ancora realizzato. Per quanto riguarda il grande progetto da 2 milioni e mezzo di tonnellate di prodotti piani decarbonizzati, più volte, come comunità siderurgica italiana, abbiamo evidenziato che in un momento di crisi verticale della siderurgia europea non potrà essere finanziato così facilmente, soprattutto nel Paese in cui l’energia elettrica è la più cara d’Europa. Vedremo, nel nostro mestiere quello che conta sono i fatti.
A Piombino, intanto, arriva anche una società ucraina. Che peso può avere nell’area?
Metinvest è una siderurgia vera che, purtroppo, ha avuto i due impianti principali, Azovstal a Mariupol e Illic, distrutti dai bombardamenti russi. Per questo oggi, dal punto di vista della produzione, è una piccolissima siderurgia. Ha minerali di ferro, anche se non di altissima qualità. L’oligarca Rinat Akhmetov sta guardando all’Europa occidentale. Non ha la forza, però, per fare un investimento da 2 miliardi e mezzo a Piombino.
Il tema, insomma, è come finanziare Piombino?
Metinvest ha dichiarato una disponibilità di circa 300 milioni e qualcosa ci può mettere lo Stato. Naturalmente, i siderurgici privati italiani fanno notare che in questi anni hanno fatto miliardi di investimenti senza ricevere un euro dallo Stato. Ripeto, in questo momento di difficoltà della siderurgia europea non è facile trovare finanziamenti. C’è bisogno di un grande progetto industriale sostenibile, senza aiuti di Stato, che altrimenti diventano elementi di concorrenza scorretta. Inoltre, non sfuggirà che un nuovo impianto di prodotti piani va in concorrenza con Ilva e con un grande produttore privato come Arvedi. È singolare che lo Stato finanzi industrie estere per fare concorrenza a quelle italiane.
Sul futuro di Taranto cosa possiamo dire?
Mi pare che sia calato un silenzio sul fatto che il 30 novembre, termine per la presentazione delle binding offers, sia passato senza che nulla si sappia sulla presentazione delle offerte. Deduco che non siano arrivate. Sarà così fino a quando non si risolveranno due questioni fondamentali, che dipendono entrambe dall’Europa, sulle quali il governo italiano con il ministro Urso credo si stia dando da fare.
Quali sono?
Da una parte, l’abolizione delle quote gratuite di CO2 agli altiforni a partire dal 2027, senza le quali nessun altoforno europeo è in grado di reggere la competizione internazionale. Per realizzare una tonnellata di acciaio si emettono due tonnellate di CO2, quindi ogni tonnellata, che oggi costa 300-350 dollari, ne verrà a costare 550. Insostenibile. Si è perseguita questa strategia estremista dell’ambientalismo di Timmermans. La norma però c’è ed è questa, anche se molti chiedono di cambiarla.
L’altra questione da risolvere, invece, qual è?
Il contenuto di idrogeno da mettere nell’impianto Dri costruito a Taranto. La UE chiede di farlo funzionare con il 75% di idrogeno. Per un impianto del genere ci vogliono 750 milioni di metri cubi di gas l’anno; sostituire il 75% significa avere una disponibilità di idrogeno verde che non credo esista in tutta Europa. La Commissione Europea ha scritto corbellerie senza sapere neanche cosa scriveva.
Su questo, però, Bruxelles non ha cambiato idea.
L’indicazione della Vestager è questa. La legge italiana prevedeva che si potesse far funzionare l’impianto con il 10% di idrogeno; lei ha risposto che ci vuole il 40% i primi tre anni e il 75% a partire dal quarto anno. E allora chi viene a investire di fronte a una missione impossibile? Gli altiforni di Taranto hanno bisogno di manutenzione straordinaria per 150-200 milioni. Chi spende una cifra del genere per avere una macchina che nel 2028 o 2029 chiuderà?
(Paolo Rossetti)
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