La lunga stagione della pandemia induce la politica a ripensarsi. A cogliere nella provocazione grande di questo presente ragioni valide, a introdurre elementi di discontinuità senza disperdere i pilastri virtuosi dell’agire politico. Nadia Urbinati – insegna teoria politica alla Columbia University – è una politologa molto attenta a quel che accade. Stasera, non a caso, partecipa all’incontro inaugurale della terza edizione della scuola di formazione politica “Conoscere per decidere” dal titolo “Pandemia e società. Che cosa è cambiato? Cosa resterà e cosa passerà?”. Un ciclo di approfondimenti promosso dalla Fondazione per la Sussidiarietà, Società Umanitaria, Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine (diretta streaming sulle rispettive piattaforme). Con lei, Alessandro Pajno, presidente emerito del Consiglio di Stato. A coordinare i lavori Luciano Violante, presidente della Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine; mentre i saluti iniziali sono di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, e Alberto Jannuzzelli, presidente della Società Umanitaria, Milano. Con Urbinati proviamo a mettere in circolo alcuni spunti, quasi fosse un’anteprima.
Professoressa Urbinati, sta cambiando la politica al tempo del Coronavirus?
L’unico cambiamento che vedo è nella domanda incalzante di accettabili condizioni di vita, direi di una migliore vivibilità. L’impatto della pandemia ha posto in cima ai pensieri la salute, appunto la vita. E questo fatto è venuto a complicare molto le cose. La domanda è a quel livello. Tocca l’essenziale. Con l’evidenza di condizioni di disparità e quindi di incremento delle diseguaglianze sociali. Tuttavia, non colgo segnali che possano farci prevedere rivoluzioni. Semmai, tentativi. Anche eclatanti. Anche con profondi errori. E la politica risente di questa complessità. Dare una forma ai bisogni rimane sempre un passaggio critico. Soprattutto oggi che il bisogno è così strettamente legato a una vicenda di rilevanza epocale.
A proposito di volto realistico della politica, nel suo ultimo libro Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo (Laterza) lei fa riferimento a una concezione minimalista della democrazia. Cosa esprime quella concezione?
La concezione minimalista della democrazia è fondamentale. Riguarda le condizioni minime. Ovvero: l’abc della democrazia. La vita di partiti e movimenti. Il Parlamento con maggioranza e opposizione che lavorano. Una politica che si riconosca fallibile pur se necessaria. Che sappia venire a compromessi. Cose basilari, elementari, ma indispensabili.
Negli Usa, Paese che lei conosce molto bene, su questa concezione minimalista della democrazia sembrano avere un problema.
Proprio così. Evidentemente anche sull’abc ci si può non ritrovare. Non accettare di tornare a casa dopo una sconfitta elettorale indica la gravità della situazione. Per questo motivo dico che è fondamentale preservare la concezione minimalista della democrazia.
Come stanno i populismi e la democrazia populista? E storicamente sono sempre il segnale di un allarme? Di qualcosa che non va?
I populismi rappresentano il sintomo del declino della rappresentanza partitica. Dicono della necessità di forme alternative di espressione politica. Si tratta di una reazione contro il disagio. Non solo economico, ma anche politico. In ogni caso non vedo nei populismi una soluzione desiderabile. Pur essendo fenomeni che si muovono nell’alveo della democrazia moderna, ma nella sua espressione di maggior degrado.
Nel suo ultimo libro, a proposito dei nuovi conflitti, lei parla dei pochi contro i molti. Ma chi sono “i pochi” e “i molti”? E cosa c’è in gioco?
“I pochi” sono i detentori del potere, gli oligarchi. “I molti” sono tutti gli altri. “I molti” hanno più capacità di organizzazione, ma il problema è che questi non solo vivono il conflitto con “i pochi” che rappresentano altro da loro, ma devono vedersela anche con “i pochi” che riescono a mettersi alla testa, a guidare l’organizzazione. E, pertanto, “i pochi” dispongono di uno stratagemma importante per condurre il conflitto dalla propria parte: in pratica sono due avversari assai temibili contro “i molti”. È in questo modo che “i pochi” cercano di neutralizzare “i molti”. E tutto questo, quando si compie, provoca la frattura, rompe l’unità. Manda in crisi la concezione minimalista della democrazia.
E questo è il conflitto, diciamo così cattivo. Perché poi, se non si compie la frattura, vi è il conflitto buono. Con la dialettica politica che si esprime anche duramente ma resta nell’arena condivisa.
Il conflitto buono è il risultato dell’attenzione dei molti sui pochi che esercitano il potere. La democrazia così rimane viva. Perché il conflitto buono è l’essenza della democrazia; come scrivo nel libro “è come una lotta di aggiustamento continuo tra chi vorrebbe accumulare il massimo di potere e chi vorrebbe disperderlo”.
In che misura la cultura sussidiaria può contribuire al ritorno del protagonismo dei molti?
Quando i protagonisti la interpretano come una forma di sostegno positivo al governo territoriale si tratta di un’esperienza importantissima. Invece può essere un problema quando a prevalere è una visione di tipo particolaristico che guarda solo al vicino, quindi incapace di avere un orizzonte più ampio. Questo è un aspetto di sussidiarietà opaco. La cultura sussidiaria diventa contributo per tutti quando esprime una capacità ampia di sguardo. Quando mira a una solidarietà più ampia, il che significa contribuire, in misura significativa, a temperare le tensioni che ci sono. Quando si fa promotrice di diritti uguali per tutti e coopera attivamente nella direzione di trovare le condizioni più efficaci per avviare l’indispensabile processo di redistribuzione della ricchezza.
Nel conflitto fra Stato e Regioni coglie il pericolo di un’interpretazione miope e strumentale del principio di sussidiarietà?
Vi è quel pericolo nella misura in cui prevale la visione divisiva, quella che ricorre alla sussidiarietà in contrapposizione alla sovranità dello Stato. Ed è l’opacità a cui facevo cenno appena più sopra. Quindi non una cultura sussidiaria che si apre, propositiva e, appunto, inclusiva. Ma al servizio di un regionalismo conflittuale che non sa o non vuole vedere i vantaggi che derivano dall’aderire operoso a uno spirito unitario costruito sulla solidarietà nazionale.
(Enzo Manes)