Sui Mondiali di basket vinti dalla Spagna c’è la lunga mano di Sergio Scariolo: il tecnico bresciano ancora una volta si è messo un oro al collo dopo i tre agli Europei (2009, 2011 e 2015) portando la Roja dove nessuno pensava potesse nuovamente inerpicarsi. Sul tetto del mondo dopo 13 anni, la Spagna conferma la bontà di un movimento che, come ha spiegato il coach in esclusiva a IlSussidiario.net, da qualche anno lavora compatto uniformandosi a partire dalle nazionali giovanili; un esempio sicuramente da seguire e che ha portato Scariolo a concludere un anno magico, coronato anche dal titolo NBA vinto da assistente allenatore dei Toronto Raptors. Oltre agli ori europei Scariolo ha raccolto due medaglie olimpiche, tra cui l’argento di Londra; a lui abbiamo chiesto i segreti del Mondiale vinto in Cina e abbiamo provato ad approfondire alcuni temi legati alla continuità iberica ma anche al nostro movimento, anche e soprattutto dopo l’eliminazione dell’Italia al secondo girone iridato (proprio a causa della sconfitta contro la Spagna).



Coach, congratulazioni: la Spagna è campione del mondo per la seconda volta. Che sensazione dà aver vinto questo titolo? Le sensazioni sono molto belle perché si tratta di una cosa inaspettata: non eravamo pronosticati e non ci aspettavamo di arrivare talmente in alto. Questo è stato il punto differenziale rispetto ad altre occasioni, in cui avevamo maggiore pienezza di maturità, di forma fisica e freschezza dei nostri giocatori.



In che modo questo titolo mondiale è diverso dagli ori europei o dalle medaglie olimpiche, se si può dire che sia diverso? Ogni torneo ha le sue difficoltà e il suo merito; questo oro mondiale però ha una connotazione diversa per quanto dicevo prima.

Avete affrontato i Mondiali senza giocatori cardine degli ultimi anni: da Sergio Rodriguez a Mirotic passando per Ibaka e ovviamente Pau Gasol. Con i nuovi innesti è cambiato anche il vostro sistema di gioco e in qualche modo la filosofia della nazionale? Abbiamo ovviamente dovuto cambiare qualcosa; noi ormai non abbiamo nessun giocatore della generazione mitica degli Ottanta, caratterizzata soprattutto dal talento di Juan Carlos Navarro e Pau Gasol. Senz’altro abbiamo dovuto giocare in una maniera diversa, ma era la tappa di un’evoluzione cominciata già da qualche anno che passa da un movimento della palla maggiore in attacco, coinvolgendo più uomini per avere, in difesa, una necessità di rendimento più alto da parte di tutti. Questo perché abbassandosi il talento nel fare punti abbiamo dovuto abbassare anche la sogli dei punti avversari.



Ricky Rubio ha operato una transizione che l’ha portato dall’essere un ottimo passatore e difensore (volendo banalizzare) a MVP del Mondiale tra le primissime opzioni offensive: quanto c’è del lavoro di Scariolo nella sua definitiva maturazione? Ricky è un giocatore ancora in evoluzione, e la tua valutazione sulla transizione è corretta; è in una fase in cui sta cercando l’equilibrio tra queste componenti e, se riuscirà a trovarlo ai massimi livelli, potremo veramente parlare di una nuova stagione della sua carriera, e potremmo facilmente proiettarlo tra i primi tre-quattro playmaker della NBA.

Per lei è stato un anno d’oro: prima il titolo NBA da assistente, poi il Mondiale. Si può fare una classifica per importanza (anche emotiva e personale)? E’ molto difficile fare una classifica tra i titoli: sono stati davvero bellissimi e con una grande partecipazione popolare.

A tale proposito: cosa le ha dato l’esperienza questa stagione in NBA in termini di esperienza da allenatore e umanamente? La NBA mi ha sicuramente insegnato molto, soprattutto nell’analisi e nell’approfondimento del tuo gioco e di quello degli avversari. Poi sul miglioramento individuale dei giocatori: qui sono un anno luce avanti rispetto all’Europa. Molti aspetti tattici, visti da lontano, faticavi a capirli per la velocità tremenda del gioco mentre dall’interno ho avuto più possibilità di approfondirli e impararli, come di crescere a livello di gestione dei carichi di lavoro. Mi sento molto cresciuto come allenatore, soprattutto per aver fatto questa esperienza in modo vincente e con molta responsabilità nel lavoro tecnico-tattico di tutti i giorni.

La Spagna è vertici del basket mondiale da ormai dieci anni, vincendo anche contro i pronostici: a questo punto non si può dire che si tratti solo di una generazione d’oro… quali sono i segreti del movimento, e può essere un modello da seguire anche per altre nazioni? Effettivamente la generazione d’oro è finita; i segreti sono facilmente riproducibili ma non immediati. Intanto la presenza della pallacanestro nelle scuole è davvero intensa; in generale l’attività con i bambini fino a 14-15 anni è unica nel mondo, io credo, per qualità e competitività, per coinvolgimento e presenza di manifestazioni. Chiaramente poi c’è il lavoro che stiamo facendo ormai da due-tre anni con la federazione, sfociato quest’anno nell’Under 16 e Under 18 campioni d’Europa e la Under 20 vice campione…

Di cosa si tratta? Di uniformare il lavoro dalla nostra accademia Under 12 e Under 13 fino alla prima squadra; seguiamo una linea unica secondo principi comuni, che ovviamente partono da una base molto elementare e vanno arricchendosi e sofisticandosi più si cresce ma che hanno punti in comune e che, soprattutto a livello di valori e vicinanza tra i ragazzini e la prima squadra, fanno sì che lo spirito di competitività e appartenenza a questa squadra, o maglia comunque la si voglia chiamare, vengano alimentati e accentuati. I risultati si vedono in come competono le nostre squadre, anche se è chiaro che a livello sia fisico che tecnico la parabola è inevitabilmente discendente.

Inevitabilmente, il discorso cade sull’Italia: da avversario (che ci ha anche battuti nella partita decisiva) cosa pensa della nostra nazionale ai Mondiali? Penso che l’Italia abbia fatto una buona partecipazione: ha vinto le partite che doveva vincere, ha tenuto testa alla Serbia fino all’ultimo quarto, ha perso contro i campioni del mondo lottando fino alla fine. Non vedo la necessità di questo disfattismo, di questa negatività che si è diffusa.

Al netto delle scelte sui convocati (parere personale, altri nomi avrebbero comunque spostato poco): pensa che l’Italia avrebbe potuto fare di più, realisticamente, oppure ha ragione chi dice che il livello attuale non vale comunque le prime otto al mondo? Non credo sia stato un “under achievement” rispetto a quanto si potesse fare; è chiaro che molte volte gli incroci e gli accoppiamenti determinano che una squadra vada più avanti o più indietro, questo succede tutti gli anni. Tuttavia, non ho visto il risultato dell’Italia come deficitario.

A suo parere, da cosa dovrebbe ripartire il nostro movimento per tornare a essere davvero competitivi per le medaglie? La sensazione è che l’epoca di Belinelli, Gallinari e Datome sia ormai alla fine… Io credo che questi tre non siano ancora alla fine: anche di noi si diceva da tanti anni che lo fossimo, ma siamo riusciti ad allungare la traiettoria positiva e, dunque, non vedo perché non possa farlo anche l’Italia.

Intanto è ripartito il campionato di Serie A1, con rinunce importanti ma anche il ritorno di grandi piazze come Treviso, Roma e Bologna sponda Fortitudo: cosa si aspetta, e quale potrebbe essere una rivelazione? Il ritorno di queste grandi piazze è sicuramente positivo; quello che però mi aspetto è che sempre più realtà, che già ci sono o anche nuove, si affaccino al massimo livello della pallacanestro europea. Va bene allargare la base e riportare le piazze storiche, è fondamentale, ma alla fine il tempo si prende sulle prestazioni che Milano, Bologna, Venezia, Sassari eccetera potranno registrare. Quella è la locomotiva del movimento, insieme alla nazionale.

L’ultima esperienza di Scariolo in Italia risale ormai a sei anni fa: ne immagina un’altra nel futuro a breve termine? Onestamente, senza voler dire “mai” perchè in questo lavoro è difficile dirlo, non la immagino in tempi brevi anche per vincoli contrattuali esistenti; per adesso lasciamola ad un “si vedrà”…

(Claudio Franceschini)