Il 14 ottobre, la “stagione” del Teatro dell’Opera di Roma è terminata con l’ultima replica di Alceste di Christoph Willibald Gluck, nella versione francese del 1776. Ci sono due titoli ancora in programma – Giselle di Adam e Tosca di Puccini – ma si tratta di lavori di repertorio già visti più volte da un pubblico fidelizzato.
Non così Alceste. È solo la quarta volta che viene allestita e messa in scena a Roma. Ricordo che nel 1967, l’ultima volta che venne presentata al Teatro dell’Opera, i due maggiori quotidiani della capitale dedicarono una pagina ciascuno (a firma dei loro autorevoli critici musicali, Renzo Rosselini e Guido Pannain) all’evento. Quindi, una rarità le cui rappresentazioni romane sono cresciute in successo man mano che procedevano sino a giungere ad un tutto esaurito ed a vere e proprie ovazioni all’ultima replica.
Seconda opera della “riforma gluckiana” dopo Orfeo ed Euridice e prima di Paride ed Elena, fu rappresentata per la prima volta senza successo al di Vienna il 26 dicembre. Una versione più breve dell’opera, su libretto di Le Bailly du Roullet venne presentata all’Opéra di Parigi il 23 aprile 1776.
Oggi l’opera viene rappresentata nella versione rivisitata anche se spesso tradotta in italiano. Entrambe le versioni sono in tre atti e non nei consueti due atti delle “opere serie”.
Quando la partitura dell’Alceste fu edita a stampa a Vienna, nel 1769, Gluck vi aggiunse una celebre prefazione in italiano, quasi certamente scritta da Calzabigi, che costituisce il vero e proprio manifesto delle loro idee sulla riforma del teatro d’opera, i cui punti programmatici ricalcano quelli esposti da Francesco Algarotti nel suo Saggio sopra l’opera in musica (1755), ossia:
- nessuna aria col da capo;
nessuno spazio concesso all’improvvisazione e al virtuosismo vocale;>
nessun passaggio melismatico prolungato;
prevalenza del canto sillabico per rendere le parole più intelligibili;
poche ripetizioni testuali, anche nelle;
attenuazione dello stacco tra recitativo e aria, limitando il numero dei recitativi;
recitativo accompagnato anziché;
semplicità melodica;
una che deve anticipare i temi musicali che saranno presenti nel corso dell’opera o deve essere comunque connessa per atmosfera generale con l’opera a cui l’ascoltatore sta per assistere.
Il manifesto segna il passaggio dell’opera barocca all’opera classica e neoclassica.
Oggi, dopo tanti stilemi succedutesi nei decenni, il manifesto può sembrare semplicistico, ma Alceste resta sempre uno dei migliori esempi di teatro musicale sull’amor coniugale. Nella tragedia di Euripide, figlia di Pelia e di Anassibia, Alceste si distingue fra le Peliadi (che furono, almeno secondo una delle fonti più divulgate, Pelopia, Medusa, Pisidice e Ippotoe) per bellezza e pietà. Essa non prende parte con le sorelle allo smembramento del padre, a cui le Peliadi si lasciano indurre da Medea, che promette loro di restituire per tal via il vecchio Pelia a novella giovinezza. Tra i molti suoi pretendenti, il solo Admeto riesce con l’aiuto d’Apollo a soddisfare alle condizioni poste da Pelia per ottenere la donzella, e cioè ad aggiogare al cocchio un leone e un cinghiale. Alceste diviene dunque sposa di Admeto e sposa amante e fedele al punto che, giunto Admeto nel fiore degli anni al momento di dover morire, essa sola si offre di morire per lui. E così Admeto, cui tale privilegio era stato ottenuto da Apollo, si salva. Secondo una versione attestataci dallo pseudo-Apollodoro e da Igino, Eracle sarebbe addirittura sceso nell’Ade per ricondurre al mondo Alceste. Le vicende di Alceste furono spesso rappresentate e nel dramma e nell’arte figurata. Tra le più famose rappresentazioni figurate del mito d’Alceste è quella di un rilievo su sarcofago della Villa Albani. Alceste passa tra le virtuosissime eroine dell’antichità insieme con Penelope, Evadne, Laodamia.
L’opera segue fedelmente il mito ma pone l’accento sull’amore tra Alceste ed Admeto. Alceste è Marina Viotti, un mezzo soprano vellutato, specialmente ricca nei lunghi recitativi; giovane, mostra di essere anche un’abile attrice. Admeto è Juan Francisco Gatell; ha mantenuto lo squilli che aveva quando faceva i primi passi al Rossini Opera Festival. Molto intelligente la regia e coreografia di Sidi Larbi Cherkaoui che utilizza i ballerini del gruppo Eastman di Anversa e della scuola di danza del Teatro dell’Opera. Affascinanti le scene (Henrik Ahr), i costumi (Jan-Jan Van Essche) e le luci (Michael Bauer).
Gianluca Capuano concerta con tocco lieve. Il coro è preparato da Roberto Gabbiani, che con questa produzione lascia l’incarico a Roma. Quando è apparso in palcoscenico ha ricevuto vere e proprie meritatissime ovazioni.
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