Il Fatto Quotidiano, ieri in prima pagina, dava molta evidenza alla notizia di un’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio presso il presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron, anche al fine di accelerare l’avvio di una de-escalation bellica in Ucraina a partire dalla prospettiva (politico-diplomatica) di una “convivenza” fra ucraini e russi a cavallo delle aree contese del Donbass.



Il Fatto è una testata di influenza importante nell’opinione pubblica italiana: riferimento per M5s (da quattro anni maggior forza parlamentare nazionale, votata da un italiano su tre) e di Giuseppe Conte (due volte premier nella legislatura corrente, la seconda e più rilevante con il placet del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella; i voti del Pd e l’endorsement dell’allora presidente Usa Donald Trump). È il quotidiano italiano che da cento giorni rappresenta in modo aperto e coerente tutte le voci critiche riguardo la hardline Usa-Nato verso la Russia, abbracciata anche dall’Italia (per questo ha subito l’addio traumatico della firma storica di Furio Colombo, già direttore dell’Unità ma prima ancora atlanticissimo presidente della Fiat Usa). 



Il giornale diretto da Marco Travaglio è dunque il candidato ideale ad aprire una lista di “osservazione speciale”, evocata negli ultimi giorni sulla stampa per tutte le antenne “filoputiniane”. Il Corriere della Sera, tuttavia, ha evitato di citare il Fatto fra i sospetti “agenti russi oltre le linee italiane”: nelle stesse ore, fra l’altro, Massimo Giletti – giornalista di punta di La7 (edita dalla stessa Cairo Communication) – è stato protagonista di una controversa trasmissione live da “oltre le linee russe”. 

Il Copasir ha comunque negato che le strutture di intelligence nazionale stiano “attenzionando” media, partiti, imprese, soggetti sociali o religiosi riguardo le loro vere o presunte simpatie per il Cremlino e antipatie per la Nato e la sua contro-guerra in Ucraina. Al riparo da occhi od orecchie indiscreti c’è quindi evidentemente anche la Compagnia di Sant’Egidio. Dalla “piccola Onu sul Tevere” – nota per essere sempre intervenuta a mediare conflitti per evitare morti, distruzioni e sofferenze fra le popolazioni – proviene il cardinale Matteo Zuppi, fresco neo-presidente della Cei, vicinissimo a Papa Francesco anche nel dolore di vedere l’Ucraina ridotta da tre mesi a inimitabile poligono per mercanti d’armi. 



Anche Zuppi sarebbe un “Putinversteher”, per usare il marchio d’infamia coniato per primo da Gianni Riotta per tutti i non totalmente allineati con gli Usa di Joe Biden? Anche il Papa sarebbe meritevole di essere tenuto d’occhio dai servizi segreti per sospette attività “non occidentali”, avrebbe detto negli anni 50 il senatore Joseph McCarthy, il più celebre “cacciatore di streghe rosse” della storia contemporanea?

Il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi – ex ministro della Cooperazione nel governo Monti – ha nel frattempo compiuto (da privato cittadino) un passo diplomatico tutt’altro che marginale: ha chiesto e ottenuto udienza da Macron nelle ore in cui l’Eliseo ha ripetuto l’appello a “non umiliare la Russia”. Una posizione ribadita che al presidente appena confermato al voto dalla maggioranza dei francesi è costata molto di più di un sospetto mediatico di filoputinismo. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytri Kuleba ha reagito con toni brucianti. “Macron sta umiliando il suo Paese”. Dalla stessa Kiev non passa giorno che non partano attacchi contro la Germania di Olaf Scholz, reo di un antiputinismo tiepido e pensoso. Al contrario che per la Polonia: esempio di “affidabilità anti-putiniana” per quanto tuttora sotto processo presso la Ue per sospetti scivolamenti istituzionali verso le democrature non europee (fra cui certamente la Russia, ma in parte anche l’Ucraina) .

E in quale lista andrebbe inserita l’Estonia? Nell’ultimo fine settimana la premier Kaja Kallas ha destituito sette ministri del suo governo di coalizione: quelli appartenenti al “Centre”, secondo partito a Tallin (23%) in area di centrosinistra, aperto alle posizioni degli estoni ex sovietici e quindi al dialogo con la Russia putiniana. Per la premier del Reform Party (liberaldemocratico, 33% al “riigikogu” del paese baltico, il “Centre” si porrebbe ormai al di fuori dei parametri occidentali della nuova Estonia europea dal 1991: per questo elettori ed eletti del Centre sono stati inseriti direttamente dal loro primo ministro in una più che virtuale lista di “paria” in patria. 

Da lunedì Kallas è quindi in carica come premier di minoranza, trattando da quella posizione con le altre forze politiche (fra cui nazionalisti di estrema destra e cristiano-democratici finora all’opposizione) per la ricostituzione di una maggioranza “patriottica”. Nessuna sorpresa se fra le prime dichiarazioni di Kallas dopo l’anomala apertura della crisi vi sia stata questa: “Sarebbe un errore spingere l’Ucraina a trattative con la Russia”.

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