Caro direttore,
ieri mattina Unioncamere ha diffuso il bilancio anagrafico delle imprese italiane nel 2020. Una fotografia in grigio scuro. Alla fine di un anno quasi interamente dominato dal Covid le 273.999 cessazioni sono state poco più che bilanciate da 292.308 iscrizioni, ma è noto che il grosso delle variazioni rilevate da Infocamere si concentra nei primi mesi dell’anno. E non è certo di scarso significato che nel consuntivo 2020 sia le iscrizioni (-17,2%) sia le cessazioni (-16,4%) abbiano registrato in parallelo cali molto visibili. È comunque evidente che il vero test sull’effetto-Covid sulla struttura dei 6 milioni di imprese italiane registrate comincia soltanto ora e solo a fine marzo – se non a fine giugno – sarà possibile avere un quadro attendibile dei danni del terremoto pandemico.
Soltanto poche ore prima che Infocamere comunicasse i suoi dati, si era fatto notare sul tema il senatore a vita Mario Monti. In un intervento sul Corriere della Sera dichiaratamente orientato a stabilire “condizioni” per votare la fiducia al premier Giuseppe Conte oggi a Palazzo Madama, l’ex premier ha chiesto di “affrontare con urgenza il problema di quanto abbia senso continuare a ristorare con debito, cioè a spese degli italiani di domani le perdite subite dai danni del lockdown quando per molte attività sarebbe il caso che lo Stato favorisse la ristrutturazione o la chiusura con il necessario accompagnamento sociale, per destinare le risorse che si svilupperanno, invece che a quelle che purtroppo non avranno un domani”. È una posizione che suscita interrogativi sia nel merito economico sia anche su un piano più prettamente politico.
Non ci sono dubbi che il passaggio Covid stia già provocando un turnover accelerato, profondo e spesso traumatico nella “squadra” delle imprese italiane: i dati Unioncamere lo confermano. Molte imprese “morte di Covid” sono purtroppo già irrimediabilmente sepolte e altre centinaia di migliaia saranno prevedibilmente dichiarate defunte nelle prossime settimane. Non è affatto detto che alcune non potessero essere utilmente salvate, al pari di molti degli 82.500 e più italiani deceduti: però non si può dare torto a Monti quando invita a guardare ormai al futuro. Quante e quali imprese italiane meritano di essere rilanciate – o lanciate da zero – e non solo “ristorate” in via indifferenziata? Su quali imprese puntare gli investimenti del Recovery Fund?
La questione – cui il presidente dell’Università Bocconi non fornisce in realtà risposte – era stata affrontata dall’ex presidente della Bce, Mario Draghi, già in un fondamentale articolo-manifesto comparso sul Financial Times del marzo 2020. Nel pieno della pandemia, Draghi delineava la strategia poi sostanzialmente accolta nel Recovery Plan Ue. Primo: nessun timore a indebitare i bilanci pubblici. Secondo: utilizzare principalmente i sistemi bancari e postali come “agenzie” per pilotare il credito d’emergenza alle imprese. Terzo: preventivare perdite legate a errate valutazioni sul merito di credito delle imprese in fase critica o addirittura al “moral hazard”. Nell’indicare il sistema bancario – in evidente alternativa ai canali di finanza pubblica – il banchiere Draghi assegnava all’esperienza professionale dei banchieri una chiara fiducia di fondo nella capacità di allocare in modo efficiente ed efficace le risorse finanziarie mobilitate per affrontare una “sfida biblica”.
In concreto:
a) il Recovery Fund è stato deciso in sede Ue ma non è ancora divenuto operativo;
b) l’Italia è in ritardo nel predisporre effettivi piani di investimento e la Ue sta già manifestando irritazione e perplessità;
c) altri Paesi (anzitutto la Francia) hanno invece messo già in cantiere piani fortemente orientati alle imprese Next Generation sui binari della digitalizzazione e dell’economia green;
d) il governo Conte 2 ha finora privilegiato l’assistenzialismo alle famiglie (reddito di cittadinanza) come indirizzo di politica economica e la burocrazia statale come leva operativa in alternativa al sistema bancario.
Tutti questi nodi vengono lasciati irrisolti nell’articolo di Monti, già a capo di un governo istituzionale di unità nazionale voluto dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel pieno della crisi finanziaria dell’autunno 2011. L’allora premier dell’austerity torna peraltro a suggerire una terapia simile quando raccomanda di rompere i tabù di un’imposizione patrimoniale ordinaria e di un appesantimento della pressione fiscale successoria e immobiliare. Tutte misure che – nei fatti – vanno a colpire gli imprenditori di oggi, impegnati nella resilienza, e in parte anche quelli di domani.
La freddezza di Monti verso le forze economiche che in un’economia di mercato sono il motore del Pil è peraltro evidente anche nell’ordine delle priorità politiche del senatore a vita: la più importante non è la ripresa, ma “la riduzione delle diseguaglianze”. L’agenda di Monti – nato come economista euro-liberista nel maggior think tank del capitalismo finanziario italiano – sembra essere via via approdata a quella del governo M5s-Pd-LeU. Un’agenda notoriamente condivisa anche dalla Santa Sede, che fu, fra l’altro, sponsor di Scelta Civica, la formazione politica con cui nel 2013 Monti trasformò il suo impegno di premier tecnico-istituzionale in quello di leader politico.