“Un’assenza preoccupante. Di fatto, Draghi ha fatto sua la linea del Pd: allinearsi alla strategia francese. In politica estera l’Italia è sempre più marginale” dice Antonio Pilati, saggista, esperto di comunicazione, già componente di AgCom e Antitrust.

17 febbraio: Parigi, vertice Ue-Africa. Draghi dà in mano il proprio discorso a Macron, prende un volo per Roma e si precipita – senza appuntamento – al Quirinale. Erano i giorni del Milleproroghe, del “così non si va avanti”. A livello internazionale, una rinuncia. Come dire: ci rappresenta Macron. Surreale la scusa dei “problemi tecnici” che il 28 febbraio impediscono a Draghi di videocollegarsi con l’Eliseo, per parlare di Ucraina con Macron, Scholz e von der Leyen. Altro vertice in videoconferenza il 7 marzo, sempre sull’Ucraina: Biden, Macron, Scholz, Johnson. Draghi assente. Il giorno successivo, 8 marzo, Macron, Scholz e Xi Jinping si sentono al telefono. Si parla ovviamente di guerra in Ucraina. Draghi non pervenuto.



Nel novembre scorso, alla vigilia di una firma importante, quella del Trattato del Quirinale, si ipotizzava che la “cooperazione rafforzata” tra Italia e Francia ci vedesse in posizione nettamente subordinata. Adesso si può dire che è la scelta deliberata di due persone.

È necessario essere anti-draghiani per dire che siamo marginali?



No, basta essere italiani.

Il discorso di Mattarella in occasione della “Giornata internazionale della donna”contiene una forte dichiarazione di politica estera. Qualsiasi prezzo ci chieda la guerra in Ucraina, andrà pagato e sarà giusto farlo.

È la prova che Mattarella, non il parlamento dà l’indirizzo di politica estera. In questo momento il capo dello Stato esprime fedelmente l’indirizzo americano, anche se gli interessi americani sono diversi, in questo momento, dai nostri. Nel frattempo il ministro degli Esteri dà un’immagine mediocre dell’Italia e Draghi negli ultimi 15 giorni non ha partecipato ai colloqui che contano.



Per quale ragione?

L’Italia è riconosciuta come uno Stato di rango minore in Europa.

Stupisce come a qualcuno – non all’estero, ma in Italia – vada bene questa esclusione.

Draghi è andato dietro a una linea già sponsorizzata da Mattarella prima di lui, quella di allinearsi alla strategia francese. È la linea del Pd. La presidenza di turno dell’Unione, a guida francese, rende ancor più evidente questa delega politica. Non riguarda poi solo la politica estera, ma anche quella industriale.

Si riferisce a Tim?

È un caso lampante. Le ultime decisioni sembrano funzionali al disegno di Bolloré di acquistare a prezzo di affezione la parte service dell’azienda.

Torniamo a Draghi. Si ricorda l’epiteto di “dittatore di cui c’è bisogno” affibbiato a Erdogan?

Non è stato un passaggio felice: la Turchia controlla metà della Libia ed è un player fondamentale in tutto il Mediterraneo centro-orientale.

Dovendo dare un senso a quell’episodio, vi abbiamo visto un messaggio politico dissuasivo spedito dagli americani attraverso Draghi. Era solo una uscita improvvida?

Gli americani sono impegnati a mantenere l’alleanza con la Turchia, ad evitare che scivoli verso la Russia.

E i tanto declamati rapporti di Draghi con gli ambienti americani che contano?

In questo momento è fondamentale il raccordo con l’Europa. Calibrarlo non è facile perché gli interessi di molti Paesi del continente (energia, export) non coincidono con quelli Usa e i costi delle sanzioni ricadono soprattutto su di noi.

Ieri si è svolto a Versailles un Consiglio europeo informale, il che vuol dire un summit in cui si pesano i veri rapporti di forza. Fronteggiare la guerra in Ucraina o salvare l’Europa?

Con la guerra l’economia di molti Paesi europei già in difficoltà va in grande sofferenza: inflazione, rifornimenti carenti, approvvigionamenti in tensione. La prospettiva della stagflazione è concreta.

Le cito anche una dichiarazione, a suo modo preoccupante, di Macron: la Ue cambierà più con la guerra che con la pandemia.

Ho qualche dubbio. La guerra accentua i problemi europei, già si intravedono le divergenze di interessi tra i vari Paesi: basti pensare ai diversi modi di guardare al Patto di stabilità e all’opportunità di un suo rapido reintegro.

Per Timmermans, responsabile del Green Deal europeo, “è giunto il momento di passare alle fonti rinnovabili alla velocità della luce”. A questo serve la guerra in Ucraina?

Il fondamentalismo ecologico aggrava la crisi. E infatti per necessità si rivalutano il nucleare e persino il carbone, cioè soluzioni opposte al rilancio delle rinnovabili.

Qual è in questo contesto il nostro ruolo?

È una situazione difficile, siamo deboli e ci stiamo assumendo pesanti responsabilità che aggraveranno la nostra crisi.

Non pretenderà che prendiamo decisioni contrarie alla Nato.

Certamente no. Decisioni consapevoli non possono però prescindere da una riflessione su quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, quando europei e soprattutto americani hanno pensato che le democrazie liberali avessero segnato una grande vittoria ideologica e potessero goderne di conseguenza enormi vantaggi politici. Tuttavia, da un lato all’interno dell’Occidente si scatenava un movimento di rigetto della nostra storia culturale (cancel culture) che ci ha delegittimato agli occhi del resto del mondo. Dall’altro lato sono state avviate iniziative politiche di grande portata ma sfociate in esiti controproducenti.

Vale a dire?

L’ingresso della Cina nel mercato mondiale, avvenuto senza cautele e condizioni; una politica contraddittoria verso la Russia (aperture europee e rigidità americane); le dispendiose guerre condotte in molti Paesi senza cogenti obiettivi strategici (Iraq, Afghanistan, Libia, Siria). Oggi siamo giunti a una sorta di redde rationem. E nelle posizioni altalenanti verso la Cina, verso la futura convivenza con la Russia, verso le nuove alleanze in Medio oriente vedo una certa confusione strategica.

(Federico Ferraù)

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