Ogni cittadino italiano ha il diritto – e forse anche il dovere – di avere una sua opinione, personale e insindacabile sulle politiche di gestione dei flussi migratori. Il governo e i suoi ministri hanno l’obbligo istituzionale di averne una, definita, in tempo reale. Ad esempio, il tempo dell’avvistamento di una nave Ong carica di migranti raccolti nel canale di Sicilia e diretti verso un porto italiano. O il tempo dello speronamento di un mezzo militare italiano nelle acque territoriali – anzi all’interno di un porto – dopo tutti i warning imposti dal caso e dopo una pronuncia (in tempo reale) della Corte di giustizia della Ue.
Il ministro dell’Interno e vicepremier. Matteo Salvini, ha espresso la sua opinione istituzionale e agito di conseguenza. La polizia ha arrestato la capitana Rackete su ordine della Procura di Agrigento. L’arresto non è stato poi convalidato dal Gip di Agrigento. Altre opinioni istituzionali, di per sé discutibili nel merito come quelle del ministro: tutte comunque legittimamente maturate e sindacabili entro i percorsi della legalità democratica. Soprattutto: opinioni maturate in un tempo reale che non poteva essere derogato.
Nel fine settimana si sono aggiunte altre opinioni istituzionali: quelle del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, finora silente sulla nuova emergenza migranti. Solo sette giorni dopo lo speronamento della vedetta della Guardia di Finanza (dipendente quindi dal ministero dell’Economia, non da quello della Difesa), la Trenta ha duramente polemizzato con Salvini: accusandolo di aver deliberatamente ignorato l’offerta di aiuto della Marina e di aver oggettivamente provocato la “crisi della Capitana”, rifiutando i piani della vecchia “missione Sofia”, a suo tempo concordata con la Ue nell’ambito degli accordi di Dublino.
Una prima riflessione – toccata a caldo da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera – è che il “tempo reale” della Trenta appare molto diverso da quello di Salvini: un tempo verosimilmente dettato dalla competizione politica tout court, non dalle esigenze del governo del Paese letteralmente su un fronte cruciale.
Il ministro della Difesa non sembra minimamente preoccupata, neppure a posteriori, di quanto accaduto nella notte fra il 29 e il 30 giugno nel porto di Lampedusa: del fatto che una nave battente bandiera olandese e con comandante tedesca (due Paesi Ue) è entrata a forza nelle acque territoriali e addirittura in un porto, nonostante gli avvertimenti di forze militari preposte alla sicurezza nazionale. Per lei non sembra rilevare il fatto che la nave ha oggettivamente attaccato un mezzo militare (tesi convalidata dalla Procura nell’atto di arresto), mettendo a rischio la vita di militari nell’esercizio delle loro funzioni (cioè in obbedienza a precisi ordini militari ricevuti).
Il ministro pentastellato sembra invece mosso da altre motivazioni, estranee al merito della questione migratoria. La prima e principale: strumentalizzare una vicenda di governo del Paese al fine di contenere il netto rafforzamento della Lega a spese dei pentastellati nell’ultima consultazione elettorale. con la sostanziale inversione dei pesi parlamentari che hanno generato nel 2018 la maggioranza giallo-verde.
Un secondo fine – neppure troppo “secondo” o celato – è la volontà di riproporre il ruolo della Marina militare nelle operazioni nel Canale di Sicilia. Ma è evidente anche la via prescelta: riaffermare la validità dello schema politico-diplomatico di Dublino e delle sue applicazioni operative, quelle che dopo sei anni continuano a dichiarare di fatto l’Italia unico “porto aperto” per i migranti, mentre tutte le altre frontiere (in particolare quella spagnola, quella francese e quella austriaca, avamposto di quella tedesca) rimangono chiuse e anzi militarmente presidiate. (Il corollario politico-economico è quello affermato senza smentita alcuna da Emma Bonino, ministro degli Esteri del governo Letta che firmò Dublino: è in base a quegli accordi che l’Italia avrebbe goduto di una presunta flessibilità finanziaria da parte della Ue durante i governi Renzi e Gentiloni).
E’ comunque almeno curioso che il ministro Trenta rispolveri la questione all’indomani di una brusca svolta in Europa: prima negli esiti del voto di maggio, poi negli esiti – altrettanto tormentati – del recentissimo Consiglio di rinnovo delle alte cariche Ue. Perfino l’unico italiano premiato con un incarico – il neo-presidente del Parlamento europeo, David Sassoli (Pd) – ha subito posto in cima alla sua agenda la revisione di Dublino e delle politiche migratorie europee. E’ poi strano che al ministro della Difesa sfugga che la clamorosa cancellazione in tempo reale della procedura d’infrazione contro l’Italia per debito eccessivo (di fatto l’ammissione che i parametri di Maastricht sono dei pericolosi fake nelle mani dei potentati di turno in Europa) è stata ottenuta dal premier Conte anche sulle scie politiche lasciate dalla drammatica collisione nel porto di Lampedusa.
Sul Sussidiario è stata registrata più volte la posizione fin dall’inizio discussa del ministro: un ufficiale della riserva, il cui compagno è pure un ufficiale in servizio, impegnato al ministero fino a un trasferimento che però opposizione e media hanno dovuto sollecitare alla Trenta. A presidio politico della Difesa c’è dunque un militare: che non può non essere sensibile alle istanze provenienti dalle forze armate, sempre e in ogni Paese instancabilmente a caccia di budget. Ed è evidente che il ridimensionamento dell’operatività della Marina nella “vecchia” gestione dei flussi migratori ha creato malumori su questo terreno: soprattutto nella Guardia costiera, la quale ha già fatto filtrare da tempo l’apparente prevalenza e inderogabilità della sua missione di salvataggio rispetto a quella di tutela dei confini marittimi. E solo qualcuno può essersi stupito delle dure prese di posizione anti-Salvini di Gregorio De Falco – il famoso ufficiale di marina del “caso Schettino” – eletto nel 2018 senatore M5s, anche se già enucleato nel gruppo misto.
La “questione militare” tende comunque a diventare più scottante. In un recente intervento sul Sussidiario è stata appaiata a quella della giustizia fra i dossier di cui il Presidente della Repubblica farebbe volentieri a meno. Ma è al Capo dello Stato che la Costituzione assegna direttamente due alte responsabilità di garanzia istituzionale: Capo delle Forze armate oltreché Presidente del Consiglio superiore della magistratura.
Quanto è alle cronache da un mese – ciò che Sergio Mattarella ha bollato pubblicamente come “sconcertante” – ha informato gli italiani di come molti magistrati – fortunatamente non tutti – e molti componenti dell’organo di autogoverno hanno finito per amministrare l’ordine giudiziario: non esercitando le funzioni istituzionali prescritte di produzione e affermazione quotidiana della giustizia a vantaggio della Repubblica democratica e dei suoi cittadini, ma abusando di quelle funzioni a beneficio proprio e con interferenze reciproche con gli altri poteri dello Stato.
Sarebbe grave scoprire – magari molti anni dopo – che anche negli alti comandi militari e nelle stanze della Difesa la preoccupazione non fosse difendere il Paese, ma altro. Che non ci fossero “opinioni istituzionali definite e in tempo reale” quando una nave (o un aereo o u missile o una brigata corazzata) violassero ostilmente i confini nazionali.
Il nuovo capo della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è dal 2013 il ministro della Difesa nel governo Merkel: perché la Trenta non chiede a lei che direttive ha la Deutsche Marine? Se la nave di una Ong italiana disobbedisse agli ordini e puntasse sul porto di Kiel?
Nella storica “tana” della marina militare tedesca sono ancora conservati alcuni U-Boot della Seconda guerra mondiale. Nell’ottobre del 1939, uno dei “lupi” dell’ammiraglio Doenitz penetrò nella principale base della Royal Navy a Scapa Flow, nelle Orcadi, considerate inavvicinabili. Due anni prima di Pearl Harbour, l’U-047 silurò nella sua rada l’incrociatore britannico Royal Oak e il capitano Gunther Prien fu subito insignito da Hitler di un’onorificenza mai assegnata a un ufficiale della Kriegsmarine. Nell’affondamento del Royal Oak morirono 883 marinai. Alcune salme non sono mai state rimosse dal relitto-cimitero militare che ancora affiora visibile a Scapa Flow: per ricordare, anzitutto agli inglesi, quanto pericolosi siano i capitani tedeschi quando si presentano in modo ostile al limite delle acque territoriali.
Alla Royal Navy servirono quattro anni per regolare i conti: nel 1943 centinaia fra navi e aerei britannici ingaggiarono una gigantesca caccia nell’Atlantico alla corazzata Bismarck. Alla fine la individuarono, ma ci misero giorni per averne ragione. Dicono che l’ammiraglio britannico Tovey, che guidava l’operazione, a un certo punto incitasse i suoi gridando: “Tirate contro anche le freccette della sala giochi”. Di 2.100 marinai tedeschi ne sopravvissero solo 300.
Perché la Germania ha rimesso in mare a fare battaglie navali la figlia – è stato affermato senza smentita – di un ex colonnello della Marina militare?