Esiste il paradosso per cui due debolezze possono creare una forza. Ma questa volta, per quanto riguarda il Governo giallo-rosso di Giuseppe Conte, il paradosso non vale. In questo caso, tra decreti che si susseguono, si accavallano e che slittano continuamente, tanto da rendere incomprensibile persino il calendario gregoriano, ci si trova a fronteggiare la tragedia della pandemia e l’incubo di una recessione economica devastante, stimata con un tonfo del Pil del 9,5%, un deficit intorno all’11% e uno stock di debito che raggiungerebbe il 160% (tutte stime per difetto, tra l’altro), con un Governo che si regge solo su un impasto di impotenza e debolezza spaventosa, in un contesto che pare di pietra, segnata da incomprensioni, divisioni, contraddizioni e visioni politiche che divergono sempre di più.
Decreti a raffica, “l’affare Bonafede-Di Matteo”, la posizione di critica perenne di Italia Viva di Matteo Renzi, con le minacciate dimissioni del ministro all’Agricoltura Teresa Bellanova sui lavoratori irregolari in agricoltura, i primi sussulti di una protesta sociale che non si può immaginare dove vada a sfociare, hanno indebolito molto il Governo Conte, nonostante quello che raccontano i sondaggi.
C’è chi sostiene che gli stessi “cinquestelle”, già imbarazzati per le sceneggiare televisive, telefoniche e di interviste ai giornali del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e del pm del Csm, simbolo della battaglia antimafia, Nino di Matteo, non sarebbero contrari a una “sostituzione in corsa” di Giuseppe Conte.
Ma la questione sembra oggettivamente una “montagna non scalabile”, tanto che il Presidente Sergio Mattarella ha adombrato, probabilmente per calmare gli animi molto tesi, un inevitabile ricorso alle elezioni in caso di crisi, di qualsiasi tipo di crisi, anche di parziale rimpasto. Gli ha fatto subito eco, per ben due volte, il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, con un secco: “Si va al voto se questo Governo non ce la fa”.
Ma sia la dichiarazione di Mattarella, sia il doppio eco di Zingaretti, sembrano un ammonimento, nato dall’angoscia, a trovare un accordo che affronti con un minimo di coesione la cosiddetta “fase 2” ed eviti un mortificante ricorso alle urne in un simile disastro e per giunta in una situazione di pandemia che favorirebbe un’astensione tale da battere ogni record della storia repubblicana.
In più, un Governo lacerato al suo interno, che non riesca a trovare la “quadra” sui problemi di interventi economici e non mostri un minimo di compattezza avrebbe una vita ancora più difficile oggi, quando si riunirà l’Eurogruppo per stabilire la natura, gli strumenti innovatori e tutto il resto che serve per aiutare l’Europa, da Nord a Sud, contro il coronavirus e contro la recessione economica, che alla fine toccherà tutti gli Stati dell’Unione europea.
A questo punto ci si può solo attaccare alla speranza che questo “stato di necessità”, che regge di fatto il Governo, si trasformi almeno in una sorta di interventi il più possibile adeguati alla situazione che il Paese sta attraversando. Ci sono due punti che devono caratterizzare questa cosiddetta seconda fase. Il primo è quello di un intervento immediato, senza ritardi esasperanti, basato su liquidità e agevolazioni di vario tipo: il secondo è quello di una messa a punto, in una visione di politica economica realistica, che stabilisca una serie di interventi caratterizzati da investimenti di carattere pubblico e privato. Sinora sembra che le dichiarazioni rilasciate dai diversi leader della coalizione di governo siano dettati più da una sorta di vaga ideologia che non tiene conto della realtà che si sta vivendo.
Può essere anche giusto ripensare a una riedizione moderna dell’Iri, cioè della presenza pubblica nell’economia, magari anche per tempi limitati, così come Alberto Beneduce l’aveva messa in preventivo fin dal 1933, al tempo della grande crisi del 1929. Altri sembrano addirittura “sdegnati” di un ritorno alla presenza dello Stato nell’economia. Bene, parliamone in modo realistico, possibile e costruttivo. Ma intanto si pensi e si predisponga al più presto il pagamento della cassa integrazione. Si individui un meccanismo che acceleri l’intervento dei prestiti bancari con procedure che non prevedano circa 75 pagine da compilare e Centrale rischi da consultare. Occorre un’accortezza anche nell’accelerare i tempi della riapertura di imprese e negozi, in conformità con l’andamento della pandemia. La sinergia tra analisi della situazione sanitaria e quella della situazione economica deve essere continuamente monitorata, evitando che la situazione sfugga di mano e degeneri, per reazione, in indignazione e in una vasta protesta sociale.
Le scene che ormai riempiono i giornali con grandi fotografie e le immagini della televisioni sono drammatiche. Quando compaiono code di persone per impegnare gli ultimi gioielli di famiglia ai “banchi di pegno” o quando rinnovano il loro diritto di proprietà sui ricordi di una vita, pagando interessi che ricordano lo “strozzinaggio”, è difficile immaginare un quadro sociale positivo.
Così come quando i ristoratori di vario tipo e i baristi, protestano contro le chiusure in una piazza di Milano e subito vengano multati da agenti e vigili urbani. Proprio alla luce di queste immagini, di questa protesta per ora contenuta, lo “stato di necessità” su cui si regge il Governo non può essere usato per fini politici. Ieri ci sono state tre ore di riunione tra il presidente del Consiglio e Italia Viva. Alla fine, stando alle dichiarazioni rilasciate, si sarebbe trovata una mediazione, pur ribadendo valutazioni differenti. Ma la sostanza che esista sempre un “polverone” polemico tra maggioranza e opposizione, e all’interno della stessa maggioranza, non favorisce una ripresa che potrebbe addirittura essere anticipata all’11 maggio, lasciando via libera alle Regioni.
Si capisce bene che c’è qualcuno, non solo nell’opposizione, ma anche nella maggioranza, che “vuole cucinare” Giuseppe Conte e poi ritirare le critiche per andare avanti. È un gioco pericoloso, troppo pericoloso, da tutti i punti di vista in un momento come questo.