La Sicilia ha un nuovo beato-martire: dopo padre Pino Puglisi, tocca al giudice Rosario Livatino. Entrambi sono santi contemporanei e vittime della mafia. Entrambi hanno vissuto la straordinarietà della fede nella vita ordinaria, nel proprio lavoro di parroco o di giudice: senza clamori, senza marce, senza interviste. Hanno cambiato il mondo in cui vivevano e noi ci siamo accorti di loro solo quando non c’erano più.
La data (9 maggio) e la città in cui avviene la cerimonia di beatificazione (Agrigento), richiamano un altro momento memorabile nella storia recente siciliana. Fu in quel giorno del 1993, infatti, che Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi lanciò il suo monito accorato contro la mafia.
Oggi, come allora, il messaggio della Chiesa è chiaro. Lo ha scritto Papa Francesco: con la sua testimonianza, Rosario Livatino “ha svelato delle mafie la negazione del Vangelo, a dispetto dell’ostentazione di santini, di statue sacre costrette a inchini irriguardosi, di religiosità sbandierata quanto negata”.
Certamente, nella valutazione della santità di vita del giudice siciliano ha giocato un ruolo non indifferente la linea indicata da san Giovanni Paolo II durante la sua visita ad Agrigento. In quell’occasione papa Wojtyła non solo lanciò il suo monito contro la mafia, ma definì Livatino un “martire della giustizia e indirettamente della fede”, indicando, di fatto, l’iter da seguire per la sua beatificazione.
Il magistrato di Canicattì era un personaggio ben voluto nell’ambiente agrigentino per i suoi modi garbati e la sua vita riservata. Eppure le sue indagini contro la mafia e la sua incorruttibilità gli avevano procurato l’odio dei boss e qualche problema persino fra i colleghi in Procura. Queste circostanze inducono Livatino a porsi la questione su come sia possibile praticare realmente e compiutamente la giustizia.
Su questo punto il neo-beato mostra tutta la sua profondità nel coniugare una visione di fede con l’esercizio del proprio lavoro. Il magistrato, infatti, non è un astratto e neutro esecutore delle norme giuridiche. Egli è chiamato a decidere, cioè a scegliere, a volte fra diverse opzioni. “Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare – dice Livatino in una conferenza su “Fede e diritto” tenuta nella sua Canicattì – che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”.
Attraverso le parole del giudice-beato possiamo comprendere meglio il suo “segreto”: la fede, per lui, non era un fatto estrinseco alla vita, ma una luce che illuminava le scelte quotidiane, che faceva vedere negli altri, anche nei più incalliti delinquenti un seme di umanità, che offriva una prospettiva al cammino dell’esistenza.
Che significato ha la beatificazione di Livatino nella Sicilia di oggi? La Chiesa non parla al popolo attraverso discorsi astratti, ma soprattutto attraverso la concretezza della propria vita e i modelli che propone. Se è vero, come scrivono i vescovi siciliani, che le Chiese locali “non sono ancora all’altezza dell’eredità ricevuta”, è anche vero che nell’Isola si stanno moltiplicando concreti modelli di santità da seguire. Che questi modelli oggi portino il nome di padre Pino Puglisi e del giudice Rosario Livatino indica anche la priorità che il momento suggerisce: vivere la testimonianza straordinaria della fede nell’ordinarietà dell’esistenza.
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