La testimonianza del giudice Rosario Livatino ha condotto la Chiesa a rendergli gli onori degli altari, avendo riconosciuto che la sua uccisione fu determinata dall’impegno cristiano che seppe dare nel corso della sua breve vita. Abbiamo posto alcune domande a un giovane magistrato siciliano, Gregorio Balsamo, che ne ha apprezzato l’impegno e la dedizione professionale attraverso coloro che lo hanno conosciuto di persona.
Come ha incontrato la figura del giudice Livatino nella sua attività professionale?
Devo ammettere che fino a qualche anno fa non sapevo neanche chi fosse. Oggi ho esattamente l’età che lui aveva quando è stato barbaramente assassinato. Solo dopo essermi laureato e aver deciso di fare il magistrato ho iniziato a conoscere la sua figura.
Quando ha incontrato la sua figura?
La mia prima sede di lavoro è stata Caltanissetta, e lì ho incontrato diversi suoi colleghi dell’epoca. In modo indiretto ma molto concreto ho saputo del suo modo di lavorare soprattutto nel ricordo di numerosi aneddoti della sua vita che mi hanno consentito di apprezzarne anche il lato più umano.
E quale giudizio ne ha tratto?
Più che colpito ne sono rimasto all’inizio incuriosito. Ho iniziato a documentarmi attraverso articoli, interviste, appunti e trascrizioni. Poi pian piano, leggendo soprattutto direttamente i suoi scritti, ho cominciato a intuire che cosa la sua persona e la sua attività di magistrato potesse dire a me, giovane ancora alle prime armi.
E che cosa ha capito?
La prima cosa la traggo dalle parole che Livatino pronunciò in occasione della conferenza, dal titolo Fede e Diritto, tenuta il 30 aprile 1986 a Canicattì: “Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
E queste parole che significato assumono soprattutto oggi con gli scandali che stanno attraversando alcuni settori della magistratura?
La decisione della Chiesa di accogliere tra le schiere dei beati un magistrato proprio ai giorni nostri, rende ancor più evidente la necessità, anzitutto per me, di andare al fondo delle parole di Rosario.
E come?
Innanzitutto mi è diventato più familiare, comincio a considerarlo un amico, e proprio per questo mi confronto quasi quotidianamente con il suo modo di fare il magistrato, per verificare la validità del suo modus operandi con il mio.
E più in concreto?
Innanzitutto come faceva lui mettendo la fede al primo posto. Oggi si è convinti che un buon magistrato è colui che sa mettere da parte tutte le proprie convinzioni personali, per presentarsi nel modo più “asettico” possibile nei confronti del caso sottoposto al suo esame. Livatino, al contrario, ha saputo dire con la sua vita due cose. Primo, che la fede non costituisce un ostacolo alla corretta formazione del giudizio. Secondo che un magistrato cristiano non può non fare i conti con essa nello svolgimento della sua professione. Ma c’è un altro tema importante.
Quale?
Sempre nella stessa conferenza affermava che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana”.
E come c’entra l’amore in questo discorso?
Dire che la possibilità di guardare con amore una persona inquisita capovolge ogni logica corrente. Ma Livatino era capace di questo nel pieno rispetto delle regole. La pretesa del distacco del magistrato da colui che ha davanti rischia di fargli assumere una posizione di superiorità morale, che può degenerare in una superiorità antropologica. Oppure, al contrario, rischia di ridurre la vicenda umana che sta trattando ad una semplice res iudicanda, ossia a semplice materia inanimata oggetto di studio o, al più, di curiosità.
Quale giudizio finale ne viene per la sua attività di magistrato?
La parola carità può essere la risposta sintetica, quella di cui tutti abbiamo bisogno nel nostro tempo. Una carità che ci consenta di riconoscerci innanzitutto tutti fratelli, come il Papa ci dice sempre più spesso. Questa non elimina né la fatica né il rischio, ma ci consente di vedere negli altri il nostro stesso volto. Rosario Livatino è riuscito a dimostrare questo nei confronti di tutti. Amo ricordare un episodio molto noto della sua attività che mi è rimasto impresso.
Prego.
Il 16 agosto si presentò al carcere di Agrigento per notificare l’ordine di remissione in libertà di un detenuto. Le guardie stupite gli fecero notare che avrebbe potuto attendere il giorno successivo, ma lui rispose che quell’uomo aveva pagato il suo conto con la giustizia e quindi non doveva stare in carcere un solo giorno in più. Livatino ha saputo amare anche i mafiosi, gli stessi mafiosi che, proprio per questa ragione, ne hanno consumato il martirio.
(Francesco Inguanti)
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