È impossibile catturare l’eccitazione di uno spettacolo dal vivo su disco, ma non è detto che non ci si riesca, almeno in parte. Precisiamo però alcune cose. Prima annotazione: negli ultimi anni si sta assistendo a un diluvio di pubblicazioni di materiale registrato in concerto rimasto inedito anche per decenni. Noi però, anche se molti di essi sono registrazioni eccezionali (uno su tutti, Bob Dylan), non li prenderemo in esame.
La ragione è che vogliamo fermarci alle pubblicazioni storiche, quelle fatte in tempo reale, decise dall’artista e non dalla casa discografica o dopo che il gruppo non esiste più o l’artista è morto. La seconda annotazione è che, per ragioni a noi non note, alcuni dei più grandi live performer di tutti i tempi non hanno mai pubblicato dischi degni della loro fama. Un caso su tutti: Bruce Springsteen, il cui cofanetto Live 1975-85 non rappresenta minimamente la sua reale potenzialità live (anche se il live tratto dal tour delle Seeger Sessions è un documento di altissimo livello, ma troppo parziale nella sua carriera musicale). Fortunatamente da qualche anno lo stesso artista sta permettendo la pubblicazione di molti dei suoi concerti migliori del passato.
Vale però sempre la prima notazione. Altro elemento di discussione per quanto riguarda i dischi dal vivo sono le pesanti manomissioni effettuate in studio per correggere voci stonate, note sbagliate e chitarre scordate. Un esempio su tutti, uno dei live più venduti di sempre, quello degli Eagles, quasi tutto rifatto in studio. Insomma, decidere dieci dischi dal vivo è una impresa non da poco: noi che come sempre in queste classifiche ci siamo voluti divertire, abbiamo scelto album che non hanno nessuna pretesa di essere i più rappresentativi se non secondo il nostro gusto personale, ma non del tutto.
Alcuni infatti sono tra i migliori di sempre. In sostanza, ci siamo concentrati su dischi che hanno catturato momenti di rottura rivoluzionaria, che hanno fatto da piedistallo a intere carriere e hanno immortalato epiche jam.
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U2/ Under a blood red sky (1983)
Benché pubblicato come mini lp di soli 35 minuti, forse perché gli stessi U2 non credevano alla potenza di quello che il disco conteneva, è lo spartiacque nella carriera del gruppo irlandese. Dentro, si respira una atmosfera di autentico pericolo e paura. Solo due brani del disco provengono dal concerto al Red Rocks Amphitheatre di Denver del 5 giugno 1983 (si consiglia il dvd contenente gran parte della performance), ma tutto l’lp contiene quel senso di apocalisse evocata dal diluvio che si era scatenato e dal senso di sfida per la vita del gruppo. Le condizioni erano così terribili che i due gruppi supporter cancellarono la loro esibizione, ma nonostante questo Bono ebbe il coraggio di arrampicarsi su una colonna dell’illuminazione per sventolare una bandiera bianca, simbolo della sua astensione dalle due parti coinvolte nel conflitto civile nord irlandese. “Bono mi spaventò a morte” racconterà The Edge, “avvicinandosi ai cavi della tensione elettrica”. Gli U2 sono ancora un gruppo punk capace però di essere già epici, impegnati in una missione spirituale e pacifista: la Sunday bloody sunday qui contenuta ne è la versione definitiva, Gloria è elevazione spirituale, New year’s day è pura ispirazione cosmica mentre The electric co. è torrenziale e devastante. Il disco documenta il sacro furore del gruppo irlandese sul palco, l’ultimo momento della loro giovanile innocenza prima di entrare nella follia dello stardom.
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Jerry Lee Lewis, Live at the Star Club, Hamburg (1964)
Nella prima metà degli anni 60 i grandi eroi della prima ondata del rock’n’roll erano spariti dalle scene: chi in galera (Chuck Berry), chi impegnato a Hollywood (Elvis), chi preso da smanie da predicatore (Little Richard), chi messo all’indice per aver sposato la cugina di 13 anni. Era il caso di Jerry Lee Lewis che però non aveva smesso di incendiare i pianoforti, anche se in piccoli e squallidi club di periferia. Per registrare questo disco, Lewis finisce addirittura nel quartiere a luci rosse di Amburgo, in Germania, lo stesso posto dove i Beatles un paio di anni prima si erano fatti le ossa. Al killer non importa dove si trovi, perché, come dimostra qui, è al massimo della sua forza musicale. Attraversa con una potenza indemoniata Great balls of fire con attitudine punk (due soli minuti), suona come se stesse facendo a pezzi il suo pianoforte in Whole Lotta Shakin’ Goin’ On e in cover selvagge come Hound dog e Money fa a pezzi il pubblico. Non prende prigionieri. “Oh cavolo, è stato un disco davvero mostruosamente grande“, dirà nella sua autobiografia del 2014.
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The Band, Rock of ages (1972)
Sebbene tutti li ricordino per l’epico e gigantesco Last waltz, l’ultimo concerto della loro carriera con la formazione originale, il loro live migliore è questo. Catturati al picco della loro forza e capacità, il disco, un doppio vinile, è tratto da una serie di performance tenutesi all’Academy of music di New York tra la sera del 28 e quella del 31 dicembre 1971. Per l’occasione, The Band decide di presentarsi sul palco con una formazione e un sound speciali: viene infatti invitato il produttore e arrangiatore di New Orleans Allen Toussaint per dirigere una sezione fiati, in modo da esprimere al massimo il senso di “americanità” della musica del gruppo. Il risultato è superlativo, dall’apertura con il classico della Motown, Don’t do it, che suona come un gruppo di superstiti a una battaglia che cerca la strada di casa tra l’esplosione di granate, mentre The night they dove Old Dixie down e The weight sembrano uscire da fotografie color seppia della Guerra civile. Mai i componenti di The Band hanno suonato in maniera così eccitante e convinta, mai hanno superato se stessi come nel medley di oltre 12 minuti di roots rock psichedelico di The genetic method/Chest fever. Questo è il sound di cinque ragazzi in sincronia telepatica. Nelle ristampe su cd verranno poi inclusi anche i quattro pezzi suonati con Bob Dylan, ospite a sorpresa dello show di Capodanno.
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Van Morrison, It’s Too Late To Stop Now (1974)
Quando la musica ti prende, diventa troppo tardi per fermarsi. E devi lasciarti andare, perché è questione di vita o di morte. Esplode in maniera inarrestabile. E’ quello che succede in questo disco che documenta il tour dell’autunno 1973 di Van Morrison e la Caledonia Soul Orchestra, un ensemble formidabile con anche archi e fiati che passa tranquillamente dal soul all’R&B, dal rock al folk al blues. Il disco documenta un performer irresistibile, un James Brown dalla pelle bianca con la voce che riassume il meglio dei cantanti di colore, come un giovane leone che fa impazzire il pubblico, si ferma per una manciata di secondi, stuzzica la folla in anticipazione, sembra allontanarsi e poi tira fuori ogni goccia di energia dalla sua band. La voce è irresistibile e la potenza guaritrice della musica ha il suo totale effetto. Come dirà il biografo di Morrison, “questo disco è uno dei tentativi più impressionanti di trasportare l’eccitamento sul palco di un performer rock su vinile”.
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Johnny Cash/ At Folsom Prison (1968)
Mai nessuno aveva pensato di registrare un disco dal vivo in un carcere, sebbene questo genere di esibizioni fosse abbastanza comune. Solo Johnny Cash, l’uomo in nero, il paladino degli ultimi e dei perdenti, riuscì a convincere casa discografica e autorità penali a permetterlo. Sarebbe stato un successo da tre milioni di copie vendute. Per tutto il disco è possibile percepire l’interazione tra il cantante che dileggia, noncurante, le autorità, maledicendo quelle mura e i carcerati che rispondono con entusiasmo. Ovviamente il momento più emozionante accade quando Cash esegue il brano ispirato al carcere, Folsom prison blues, che fu il suo primo successo più di dieci anni prima. Ma è Greystone Chapel il brano che riassume tutto lo spirito di questo evento. Scritto da un detenuto, Glenn Sherley, che lo aveva fatto sentire al cappellano del carcere, viene fatto sentire a Johnny Cash che decide di eseguirlo. E’ un trionfo: “Dentro le mura della prigione può esserci il mio corpo ma il Signore ha liberato la mia anima c’è una cappella di pietra grigia qui a Folsom un luogo di preghiera in questo covo del peccato”.
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Grateful Dead, Live/Dead (1969)
Dopo alcuni dischi in studio fallimentari dal punto di vista commerciale (e un debito nei confronti della loro casa discografica di quasi 200mila dollari) la band di punta della scena hippie di San Francisco pubblica quello che sa fare meglio, esibirsi dal vivo. Resterà sempre il loro vertice. Uno dei rari dischi doppi dell’epoca, si apre con una intera facciata occupata da un solo brano, una versione dilatata e cosmica di quel che diverrà il loro classico per eccellenza e il manifesto della musica psichedelica, Dark Star. Altri momenti che hanno definito una epoca storica sono Feedback, puro noise ante litteram, e l’avanguardistica The eleven. Nonostante questo Jerry Garcia e soci si ricordano delle loro radici R&B e rock’n’roll con entusiasmanti riprese di classici come Turn on Your Love Light guidata da quel folle anticipatore di John Belushi che era lo scomparso Ron “Pigpen” McKernan. I Dead si dimostrano sia seri musicisti d’avanguardia che impeccabili revisionisti delle radici: trascorreranno il resto della loro carriera a riaffermarlo sul palco.
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The Rolling Stones, Get Yer Ya-Ya’s Out! The Rolling Stones in Concert (1970)
Con l’arrivo del ragazzo prodigio del blues, Mick Taylor, i Rolling Stones diventano qualcosa d’altro che una semplice rock’n’roll band. Il disco è tratto dal primo tour del gruppo dopo circa due anni di silenzio e il primo nelle grandi arene. E’ qui che si forgia il mito della “più grande rock band del mondo”, grazie al groove profondo e accecante di due chitarre che si inseguono e si mordono come due cani arrabbiati. Ma cresce anche la sezione ritmica, Bill Wyman e Charlie Watts, mai così perfetta e senza soste come lo è ora e lo sarà mai: “Gli Stones erano una band migliore di qualsiasi altra band dal vivo a quel tempo. Io e Charlie eravamo davvero sempre nel mirino, sempre uniti, mai fuori del contesto”. Due canzoni di Chuck Berry, ma soprattutto la loro incarnazione migliore di Satana, la lunga jam devastante e terrorizzante di Midnight Rambler rendono il disco immortale.
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Lou Reed, Rock’n’Roll Animal (1974)
Bastano cinque pezzi per un live? No, e per fortuna un anno dopo uscirà un altro live registrato nella stessa magica serata di questo, quella del 21 dicembre alla Academy of Music di New York. Rock’n’roll animal è comunque un disco gigantesco già di suo, pregno di violenza, devastazione e poesia metropolitana come un tossicodipendente possa essere capace di esprimere. E’ la coppia di chitarristi che accompagna Reed a rendere il tutto incendiario, Dick Wagner e Steve Hunter. La loro lunga battaglia di chitarre che apre il disco è eccessiva, decadente, glam per poi esplodere in un ruggito di affermazione, mentre Lou Reed prende il suo posto sul palco per una Sweet Jane che è la definizione stessa di rock’n’roll (senza dimenticare i 13 minuti di Heroin).
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Crosby, Stills, Nash & Young, 4 Way Street (1971)
Un disco acustico e uno elettrico, la perfezione assoluta. In poche parole il passaggio dall’era del folk a quella del rock. E’ il pieno periodo hippy e e della contestazione contro la guerra in Vietnam e CSNY, come dirà Bob Dylan, “hanno fermato quella guerra”. Incarnano quella generazione e ne cantano ideali, speranze e ribellione come nessun altro prima e dopo di loro. Nelle sale del Fillmore East, del Forum di Los Angeles e dell’Auditorium Theatre di Chicago non vola una mosca in mezzo al pubblico (tranne naturalmente a Chicago quando Nash si lancia nel canto di libertà omonimo) rapito dalla perfezione delle loro armonie vocali e da quei tocchi di chitarra acustica con ardite accordature aperte. Tutto cambia nel secondo disco dove Young e Stills danno vita a epiche battaglie di chitarre elettriche in jam devastanti come Carry on e Southern man (rispettivamente 13 minuti e 45 secondi e 14 minuti e 19 secondi). Il bello, ma nessuno lo sapeva, è che nel backstage di quei concerti i quattro si tiravano dietro le seggiole… Altro che pace & amore.
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Allman Brothers Band, At Fillmore East (1971)
Un instant live, quasi fossero consapevoli che il tempo a disposizione fosse ormai troppo poco. Registrato al Fillmore East di New York nel marzo 1971 e pubblicato solo quattro mesi dopo, è l’ultimo album degli Allman Brothers sotto la guida di “fratello” Duane, la cui chitarra dialogante influenzata da Coltrane fornisce una grazia terrificante nei 20 minuti di Whipping Post. Ma anche di Dickey Betts, capace nell’epica In memory of Elizabeth Reed di salire in cielo con strali chitarristi cosmici e di puro jazz. Pensare che questi musicisti avessero all’epoca di queste esibizioni 24, 25 anni ti lascia senza parole: come si può suonare così magnificamente ed essere così giovani? Mai più nessuno come loro. “In quelle serate” dirà il produttore Tom Dowd “misero in mostra la loro eclettica miscela di blues, rock, country e jazz. Fusion è un termine che giunse in seguito, ma loro erano già a quel livello. In questo disco c’è una rock band che suona blues con il linguaggio del jazz. E hanno raso al suolo il Fillmore East”. Non solo: hanno reso impossibile per qualunque altro gruppo raggiungere un tale eccelso livello.