Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è il primo film della seconda trilogia de Il Signore degli Anelli, ideata per rilanciare il brand e ispirata al libro Lo Hobbit, una delle opere in cui Tolkien narra le vicende della Terra di Mezzo prima degli avvenimenti de Il Signore degli Anelli – La compagnia dell’Anello. Uscito nel 2012, il film ha il merito di riportare nella terra degli Hobbit gli appassionati, pur con tante differenze rispetto al testo: una delle critiche mosse è che da un libro solo sono stati estrapolati tre film, fatto che può essere ritenuto per certi versi eccessivo. Un’altra critica è relativa agli stravolgimenti rispetto all’originale, con l’introduzione di vicende e personaggi completamente assenti, su tutti spicca il ruolo di Legolas: seppur possa far piacere rivedere un volto amico e familiare come l’elfo che farà parte della Compagnia dell’Anello, egli in realtà non è tra i protagonisti degli avvenimenti narrati nel libro, tanto che è assente dallo scritto di Tolkien.



Al di là di alcuni aspetti più o meno minuziosi, il film merita sicuramente di essere visto, anche a distanza di così tanto tempo dall’uscita nei cinema: allo stesso modo è sempre buona cosa rivedere e rileggere la trilogia più famosa, uno degli adattamenti cinematografici più riusciti di sempre e un libro denso di spunti con picchi di profondità notevoli.



Lo Hobbit narra delle vicende di Bilbo Baggins, Hobbit della Contea, colui che troverà l’Unico Anello che verrà poi consegnato a suo cugino (per quanto molto più giovane di lui) Frodo Baggins. Presentato nell’immaginario come un Hobbit strano e avventuroso, Bilbo Baggins vive una vita estremamente tranquilla, lontano da qualsiasi ipotesi di avventura: è tramite l’incontro con Gandalf il Grigio e l’invito ad accompagnare dei nani a riprendere il loro Regno sotto la montagna che la sua vita verrà rivoluzionata, per sempre. Tutta la sua esistenza è stravolta da un incontro.



Sin da subito Bilbo è stretto tra la sua dimensione di Hobbit sedentario e amante delle comodità e il suo sopito spirito dell’avventura, che lo vorrebbe spingere fuori dalla Contea, la sua zona di confort dove è cresciuto. Lo Hobbit non è costretto a seguire Gandalf e Thorin Scudodiquercia, il re nano senza un regno, ma lo sceglie: è messo davanti a due ipotesi, continuare la sua vita agiata o rivoluzionarla per seguire l’ignoto e il pericolo. Per partire a Bilbo è chiesto di firmare un contratto, ma per farlo egli chiede sicurezze a Gandalf, domandandogli esplicitamente se gli può promettere di tornare sano e salvo nella Contea: «No, e se farai ritorno non sarai più lo stesso».

Dapprima non sembra una risposta convincente, eppure Bilbo parte. La sua partenza è dovuta al fatto che Gandalf non lo convince con i tesori e le ricompense, ma con il sapore dell’avventura. Tanto che Bilbo firma il contratto non a seguito di un ragionamento, ma quando, vedendo la casa vuota la mattina dopo aver accolto la compagnia di nani, si rende già conto che nulla sarà più come prima e che l’assenza del loro chiasso e degli occhi penetranti di Gandalf rende vuota tutta la casa e così sarà anche per i giorni venturi, se deciderà di non partire. È un punto di partenza per la conversione di Bilbo, perché diventi sempre più se stesso, per sé e per il mondo; sembra riecheggino le parole di santa Caterina da Siena: «Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo!».

È la prima vera trasformazione di Bilbo, intercettare qualcosa che, in modo misterioso, risponde al desiderio di avventura che non sapeva nemmeno di avere confrontandosi con esso. Ma, per quanto bella e importante, la risposta iniziale non basta: per Bilbo il viaggio inaspettato sarà ricco di difficoltà e non sarà facile trasformarsi da peso a risorsa per il gruppo. Al protagonista sarà richiesta una continua e sempre più profonda e consapevole conversione.

Tanti sono gli spunti, è interessante notarne almeno un paio. Il primo è il dialogo tra Gandalf e Galadriel, elfa di Gran Burrone:

«Qualcosa di muove nell’ombra, non visto, celato ai nostri occhi, e non si mostrerà, non ancora […]. Gandalf, perché il mezzuomo?». «Non lo so. Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco, ma non è ciò che ho scoperto io. Io ho scoperto che sono le piccole cose, le azioni quotidiane della gente comune, che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore. Perché Bilbo Baggins? Forse perché io ho paura, e lui mi dà coraggio».

A un livello più morale, si potrebbe sintetizzare che la risposta alla vocazione di uno (Bilbo) è per tutti («lui mi dà coraggio»). Ma questo dialogo riguarda anche la vita di chi non è in cammino con Bilbo, i nani e Gandalf, perché quello che lo stregone ha scoperto è che tutti tengono a bada il male, rispondendo alle circostanze della giornata con atti «di gentilezza e amore». Non è qui da intendersi un gesto volontaristico o quasi magico, come se bastasse “comportarsi bene”, quanto piuttosto che è nelle piccole cose che il male può diffondersi e, soprattutto, essere sconfitto. E ognuno, con il proprio ruolo e la propria vocazione, è chiamato a rispondere a questo: entrare nelle piccole cose con amore, per qualcosa di più grande. Come non ricordare la parabola evangelica: «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Mt 13, 21).

Non può sfuggire un altro aspetto importantissimo del film, che è il ritrovamento dell’Unico Anello. Bilbo trova l’Anello caduto dalle tasche di Gollum, ormai corrotto dal suo potere, e dopo una gara d’indovinelli riesce a scappare dalle sue grinfie solamente indossandolo e rendendosi conseguentemente invisibile. Poco dopo lo Hobbit avrà la possibilità di ucciderlo, ma lo risparmierà, richiamando il famoso dialogo tra Gandalf e Frodo all’inizio dell’avventura de La compagnia dell’Anello:

«Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione».

«Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà» […].

«Al punto in cui è arrivato è certo malvagio e maligno come un Orchetto, e bisogna considerarlo un nemico. Gollum merita la morte».

«Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze».

Senza quell’iniziale gesto di pietà Bilbo sarebbe stato dannato e reso schiavo dell’Anello mentre Frodo non avrebbe avuto una guida per arrivare a Monte Fato. Quello dello Hobbit è stato un gesto di pietà e misericordia che attraversa, squarciandoli, i confini del tempo e dello spazio, e rivela tutta la propria forza e il proprio valore in un altro contesto, in un’altra avventura.

Ci sarebbe molto altro da commentare, ma da questi due episodi deriva un richiamo che vale per ognuno, nel tempo che gli è concesso e dov’è, così com’è. Come non pensare infatti al valore che ogni nostra singola azione possa avere nella storia della Salvezza?

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