Se dal palco della Festa dell’Unità di Modena Nicola Zingaretti sceglie di drammatizzare, vuol dire che l’aria che respira intorno al Pd non è delle migliori. Non solo un anatema da Armageddon’s contro gli avversari (“in gioco non c’è il destino del governo, ma del paese”), ma anche l’appello al voto utile contro le destre rivolto agli elettori dei partiti alleati, in primis i 5 Stelle.
Segnali più chiari dei timori dello stato maggiore dem non potevano esserci. Segnali che fra regionali, amministrative e referendum è in gioco la scommessa fatta un anno fa sul Governo giallorosso, e soprattutto sull’evoluzione politica di quello schema. Il voto sarà decisivo: fra un 3-3 e un 1-5 è questione di una manciata di voti in Toscana e Puglia. Sarà questo esito a determinare la direzione di una resa dei conti prima di tutto interna al partito, ma che inevitabilmente non potrà lasciare indenne il Governo.
Se la roccaforte Toscana dovesse cadere, ad esempio, per Zingaretti la strada si farebbe improvvisamente in salita. Altri tempi, ma nel 2009 Veltroni si dimise per aver perso la Sardegna, che nella geografia del Nazareno ha sempre contato assai meno di una delle due regioni rosse per eccellenza. E dentro il partito sono in molti a scaldare i motori per un eventuale cambio al vertice. C’è chi lo fa apertamente, come il governatore emiliano Bonaccini, che immagina il rientro di Renzi e Bersani. C’è chi si muove sottotraccia, come il capo delegazione al Governo Franceschini, che nel mirino continua ad avere un’altra successione, quella di Mattarella al Quirinale. E c’è chi il suo malessere lo ha manifestato schierandosi per il no al referendum, come Orfini, o la vecchia guardia dei dirigenti Pci come Macaluso e Tortorella.
Chiaro è che questo è uno scenario limite, la batosta della sinistra cui segue un il terremoto da cui il Governo non può immaginare di uscire indenne. Ma anche nel caso le cose non andassero poi tanto male all’indomani del voto ci sarebbero rilevanti conseguenze. Se sarà sempre Zingaretti a dare le carte non è che Giuseppe Conte possa immaginare di dormire sonni tranquilli. Proprio dal palco di Modena il governatore del Lazio è stato chiaro: i democratici sono profondamente insoddisfatti per i troppi ritardi del Governo, premono perché si attivi al più presto il Mes, mentre si preparano i piano per l’uso del Recovery fund, e intendono stringere i pentastellati in un abbraccio indissolubile. Meno tatticismo, decisioni più rapide e di marca europeista e soprattutto un patto strategico che i pentastellati oggi non sembrano preparati a digerire, nonostante le sponde di Fico e altri a questa prospettiva.
Va detto che anche nel Pd ci sono molti perplessi, non fosse altro perché il prezzo da pagare per stringere un’alleanza organica con Di Maio e soci sarebbe inevitabilmente sostenere in primavera Raggi e Appendino per un secondo mandato come sindache di Roma e Torino.
Il tema del dopo voto sarà certamente quello del “tagliando” al Governo, come l’ha definito il numero 2 del Pd, Orlando. È il fantasma del rimpasto che da diversi mesi si aggira minaccioso per i corridoi della politica romana. La lista dei ministri a rischio è sempre più o meno la stessa: Azzolina, Catalfo, De Micheli i nomi più a rischio. Anche Renzi è indiziato di avanzare richieste di un maggior peso nell’esecutivo. Stavolta dal Movimento non è venuto nessuno stop all’ipotesi, che rimane però ad altissimo rischio: tutti sanno che Mattarella non può consentire un’operazione soft. Se i ministri da cambiare saranno più di due, inevitabile sarà la richiesta di passare dall’apertura di una crisi formale, con il suo contorno di consultazioni, e un nuovo voto di fiducia da richiedere alle Camere.
Il guaio è che in Italia le crisi si aprono, ma non è detto che finiscano per chiudersi secondo i desideri di chi le ha provocate. Il caso dello scorso anno di Salvini in questo è decisamente paradigmatico. Ecco perché sinora il più freddo rispetto all’ipotesi del rimpasto si sia dimostrato proprio il Premier Conte. Il suo timore rimane quello di essere “rimpastato” lui stesso. Dal suo punto di vista, meglio proseguire con la squadra che c’è. Ecco perché il suo via libera arriverà solo di fronte a garanzie di ferro sulla sua permanenza a palazzo Chigi.