L’appello di Walter Veltroni a non abbandonare al suo destino l’industria della cultura e dello spettacolo – in particolare il cinema – nel semi-lockdown 2 è in sé comprensibile e condivisibile. Lo ha lanciato un ex vicepremier-ministro dei Beni culturali, un ex sindaco di Cinecittà (un pezzetto di “Made in Italy”), un leader di riferimento dei girotondi del regista Nanni Moretti, movimento non del tutto transeunte come mini-blocco sociale e quindi elettorale. Non è un caso che Veltroni si sia affacciato su Repubblica proprio assieme a Moretti. Lasciandosi tuttavia scappare (in evidenza nella titolazione) “non si capisce perché le messe sono consentite e gli spettacoli no”.  E questo autorizza qualche nota a margine, di più ampia attualità politico-culturale italiana.



La prima può sembrare da addetti ai lavori. Veltroni è in questo momento editorialista fra i più presenti sulla prima pagina del Corriere della Sera: principale concorrente di Repubblica. Un dualismo storico-ontologico quello fra le due testate: la prima moderata e radicata nel Nord produttivo; la seconda crogiolo di tutte le sinistre ideologiche o laiche, di partito o di impegno nella capitale dei palazzi. Tralasciato un quesito preliminare (come mai il Corriere odierno ha arruolato proprio l’ex sindaco di Roma fra le sue prime voci?), la domanda del giorno appare certamente questa: perché Veltroni – notista del Corriere – ha voluto affidare a Repubblica una presa di posizione così spigolosa? A chi dobbiamo credere: al Veltroni liberal, obamiano e quirinalizio, sotto contratto presso il Corriere industrial-finanziario? O a quello girotondino e mangiapreti, che parla a Repubblica virtualmente attraverso un megafono, alla testa di un classico corteo romano di “lavoratori dello spettacolo”, tutti ancora con la vecchia tessera Pci in tasca?



La questione non riguarda soltanto la parabola e le ambizioni del fondatore del Pd, prima ancora vicepremier di Romano Prodi. Il Dpcm che – secondo Veltroni – sta condannando il cinema italiano è stato firmato dal premier di un governo che ha il Pd come co-azionista assieme a M5S. E al Mibact c’è (da sei anni) Dario Franceschini: successore diretto dello stesso Veltroni alla guida del Pd; sottosegretario alla Presidenza nei governi D’Alema e Amato-2; oggi capodelegazione dem nel Conte-2 e soprattutto il membro dell’esecutivo più ascoltato del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il “caso Veltroni” appare quindi la spia non marginale di tutte le involuzioni e le storture maturate nel Pd e più in generale nella vita politica italiana. Il Veltroni “uno e bino” è per molti versi l’altra faccia dell’anomalia-Conte: premier non eletto prima di una maggioranza Lega-M5S e poi di una Pd-M5S-Iv-Leu. 

Una specifica riflessione finale sembra meritare l’esplicita contrapposizione polemica fra “messe” e “cinema”. Perché – fra tanti argomenti – Veltroni ha puntato il dito contro la (presunta) maggior attenzione del Dpcm verso la Cei e la Santa Sede piuttosto che verso l’Anicagis o la Slc-Cgil? Se c’è un momento di grande vicinanza fra la Chiesa e il cinema (romano) è questo: l’importante riflessione pastorale di Papa Francesco sulle unioni gay è stata affidata a un film, presentato al Festival del Cinema di Roma (diretto dal fratello del direttore dell’Osservatore Romano) e premiato anche in Vaticano. E che ci sia uno sguardo assiduo del Papa verso la città di cui è vescovo è stato visibilmente confermato pochi giorni fa: con la giornata interconfessionale di preghiera promossa dalla Comunità di Sant’Egidio sul piazzale del Campidoglio, dove Veltroni ha regnato su Roma per due mandati di sindaco. All’evento hanno partecipato il Pontefice e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: fra l’altro successore di Veltroni come vicepremier di Massimo D’Alema. Perché prendersela con i cattolici italiani per un Dpcm firmato da Giuseppe Conte?