Come ampiamente previsto dal Sussidiario, a pochissimi giorni dalla fiducia record raccolta dal presidente Draghi, la maggioranza che lo sostiene si è già divisa sul tema della giustizia, ovvero della prescrizione. In occasione della votazione del decreto Milleproroghe, infatti, Lega, Forza Italia e Italia viva si sono astenute sul voto relativo all’emendamento, proposto da FdI, teso a sospendere la riforma Bonafede che ha introdotto, come noto, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.



Nonostante l’emendamento sia stato comunque respinto per il voto unanime di Pd, Cinquestelle e Leu, ciò che è accaduto rappresenta un chiaro segnale al Governo delle difficoltà che sarà destinato ad affrontare, poiché quel voto è giunto a margine dell’accordo che era stato appena trovato tra la neo-ministra Marta Cartabia e i capigruppo nelle commissioni Giustizia e che puntava a disinnescare tentativi di agguato sulla prescrizione, previo l’impegno da parte della ministra ad affrontare il nodo della prescrizione solo all’interno delle riforme del processo penale. Evidente allora che Lega, Forza Italia e Italia viva non hanno votato insieme a Fratelli d’Italia per evitare di far saltare subito il tavolo, tuttavia hanno formulato una vera e propria messa in mora che ipoteca fortemente le scelte future del governo.



Superato questo primo scoglio per la navigazione del Governo, tutti coloro che hanno a cuore le sorti del nostro paese non possono che sperare che l’intendimento della ministra di trovare una sintesi sui temi della giustizia, avviando un serio ed ampio confronto in una sede ben diversa da quella legata alla votazione su un emendamento al decreto “Milleproroghe”, possa essere realizzato.

L’auspicio tuttavia, al netto delle palesi difficoltà, deve abbracciare un ampio orizzonte di azione riformatrice; orizzonte assai più ampio di quello immaginato dal precedente Governo. Come andiamo ripetendo da tempo, non si può più rinviare un intervento radicale sul processo penale che davvero renda i suoi tempi di celebrazione più rapidi senza intaccarne le garanzie. Opportuna sarebbe, ad esempio, una riflessione sulla scansione dei tempi delle indagini preliminari e, perché no, sull’abolizione del ruolo del giudice dell’udienza preliminare, le cui statistiche sulle sentenze di proscioglimento superano di poco la soglia di marginalità. Dall’emersione di una notizia di reato occorre che si arrivi all’esercizio o meno dell’azione penale in tempi rapidi e certi.



Inevitabile, pertanto, ragionare sul numero di fattispecie di reati ora esistenti. Se non si vuole toccare il moloch dell’obbligatorietà dell’azione penale, si devono liberare gli armadi dei pubblici ministeri da fascicoli aventi ad oggetto fattispecie di reato di scarso allarme sociale, ridando alla giurisdizione penale il ruolo che la storia dei sistemi democratici gli ha sempre attribuito, ovvero quella di extrema ratio e non di panacea per ogni situazione emergenziale. La macchina giudiziaria, per essere davvero efficiente, deve poter agire in poche ore o al massimo giorni rispetto all’emersione di qualunque notizia di reato.

La riflessione, come andiamo ripetendo da un po’, deve essere reale e profonda, per quanto complessa.

Se allora può essere opportuno non sprecare il lavoro fatto in commissione Giustizia sul disegno di legge di riforma del processo penale già incardinato da mesi, deve essere detto con chiarezza che quel lavoro può al più fungere da mera base di partenza, andando ben oltre. Occorre avere il coraggio di analizzare quei passaggi procedurali che rallentano l’approdo dell’indagine in giudizio, al di là del pur utile rafforzamento delle notifiche telematiche. Va senz’altro massicciamente rafforzata la polizia giudiziaria, che deve essere chiamata a evadere le deleghe di indagini in pochi giorni. Vanno meglio studiati gli esempi virtuosi di quei sistemi processuali in cui si riesce a garantire alla collettività una rapida risposta di giustizia, anche, se del caso, attraverso scelte drastiche o coraggiose. Vanno al contempo rafforzate le nullità e assicurato che il contraddittorio sia effettivo. Occorre, infine, che si metta in discussione la struttura del processo di appello, chiedendosi se valga la pena davvero conservare in quella sede la collegialità che pare assai effimera.

Affrontare il nodo della prescrizione all’interno delle riforme del processo penale, nell’ambito cioè di un disegno più organico che consenta il bilanciamento dei principi costituzionali in ballo, è quindi metodologicamente la scelta più opportuna per riuscire a contemperare l’efficacia della giustizia con i diritti degli imputati, la ragionevole durata del processo con la necessità di un processo giusto.

Andando oltre la messa in mora lanciata da Forza Italia, Italia viva e Lega, l’impegno assunto dalla Cartabia con l’ordine del giorno a sua firma, concordato con i capigruppo della maggioranza delle commissioni Giustizia, è quindi un importante atto politico, di fatto il primo; così come non può che essere condivisa la scelta di procedere con lo strumento della delega al governo, che consente gli adeguati approfondimenti. Assai apprezzabile, pertanto, che il governo, come si legge nel testo, si sia impegnato “ad adottare le necessarie iniziative di modifica normativa e le opportune misure organizzative volte a migliorare l’efficacia e l’efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli (art. 111 Cost.), assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena”.

A differenza di quanto affermato da qualcuno, rinviare a una futuribile riforma del processo penale la soluzione al vulnus arrecato dalla riforma della prescrizione voluta dal ministro Bonafede, non significa affatto lanciare la palla in tribuna. Come ha condivisibilmente ricordato la ministra, la legge sulla prescrizione provocherà i suoi primi effetti soltanto tra alcuni anni, per cui c’è tutto il tempo per un intervento di sistema. Inutile quindi impiccarsi subito alla bandiera della prescrizione. Siamo sicuri che una personalità di elevato spessore come la ministra riuscirà a favorire un confronto costruttivo fra le disomogenee forze politiche che compongono l’attuale maggioranza di governo. Per quanto il compito sia oltremodo gravoso, chi se non lei può davvero garantire il perseguimento degli indicati obiettivi?

Fra questi obiettivi, ahilei, non si può tralasciare anche quello relativo al riordino dell’ordinamento giudiziario. L’inerzia sin qui registrata non può più francamente essere tollerata e finalmente anche gli stessi magistrati iniziano a far sentire la loro voce di protesta, sebbene silenziata dalla maggioranza dei media. Una lettera firmata da 67 magistrati è infatti giunta pochi giorni fa sulla scrivania del presidente della Repubblica, contenente un appello affinché egli “torni a intervenire con la sua autorevolezza” sullo scandalo che ha travolto la magistratura e “continua a imperversare”. Annunciate come imminenti agli albori dello scandalo che ha travolto l’attuale consiliatura, le iniziative legislative di riforma del Csm auspicate dal presidente della Repubblica sono ben lungi dal tradursi in realtà, sottolineano correttamente i firmatari della missiva che chiedono innanzitutto “sia finalmente intrapreso il cammino per l’eliminazione dei fattori distorsivi dell’imparzialità e buon andamento della funzione di autogoverno, ripristinando la legalità delle sue dinamiche”. Parole che non necessitano di alcun commento.

I 67 magistrati chiedono, inoltre, non senza manifestare un certo coraggio, di intervenire affinché “sia assicurato l’allontanamento dai ruoli di coloro che non sono risultati all’altezza del compito”. Una vera rottura del fronte di unità che, almeno esteriormente, ha sempre contraddistinto l’ordinamento giudiziario. “Si resta attoniti e increduli nel constatare, pur a fronte di fatti che imbarazzano varie articolazioni delle istituzioni giudiziarie come mai accaduto in precedenza, una diffusa inerzia rispetto a iniziative che sarebbero tanto naturali quanto doverose”, scrivono tra l’altro i firmatari, segnalando come “tra coloro che sono stati investiti dalle rivelazioni dei mezzi di informazione, infatti, solo una parte, pur significativa ma certamente non completa” si sia dimessa. Si denuncia poi come ”Non solo difettano le doverose iniziative delle autorità competenti ma, sotto il profilo disciplinare, si è anche registrata l’adozione di una generale direttiva assolutoria, col conseguente rischio che comportamenti di tale genere, anziché essere sanzionati, siano avallati e ulteriormente incentivati”, invocandosi una “radicale riforma dell’Ordinamento giudiziario”, con due interventi definiti “imprescindibili”: l’inserimento del sorteggio nella procedura di selezione dei componenti del Csm e la rotazione degli incarichi direttivi e semi-direttivi.

Difficile non cogliere la portata di una tale denuncia, impossibile non comprendere la drammaticità della crisi del sistema giudiziario, che solo la vituperata crisi epidemiologica sta almeno in parte oscurando.

Sappiamo, illustre ministra, come l’impresa si palesi più che improba. Ma, come lei stessa ha più volte affermato, la giustizia si realizza pienamente quando si sostanzia nella riconciliazione, non nella vendetta; la giustizia deve essere volta a riconoscere, riparare, ricostruire, ristabilire, riconciliare, restaurare, ricominciare, ricomporre il tessuto sociale. Mai come adesso, bisogna dare valore a quel prefisso ri- che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita.

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