Si chiama “Ungheria” perché aveva sede proprio in piazza Ungheria a Roma. La loggia si sarebbe riunita, dunque, nella residenza di un potente giudice. Sono solo alcuni aspetti della ricostruzione fornita dall’avvocato Piero Amara, il cui verbale è al centro della nuova bufera al Consiglio superiore della magistratura (Csm). Questa loggia, di cui farebbero parte magistrati, politici e alti esponenti delle istituzioni (come Giuseppe Conte e Filippo Patroni Griffi), avrebbe come obiettivo, ad esempio, il condizionamento delle nomine dei magistrati. La loggia sarebbe “coperta”, per questo la Procura di Perugia ipotizza la violazione della legge Anselmi e sei persone, i cui nomi non sono noti, sono iscritte sul registro degli indagati. Ma quella di Amara è una figura particolare, fatta di smentite, misteri e contraddizioni. Lo evidenzia La Verità, spiegando che ha costruito la sua collaborazione con la giustizia dopo essere stato arrestato nel 2018 con l’accusa di corruzione in atti giudiziari e associazione per delinquere finalizzata ai reati tributari. Da allora passa di tribunale in tribunale accusando di volta in volta varie persone (come i manager Eni e Luca Palamara) e svelando segreti come quello della “loggia Ungheria”.
“LOGGIA UNGHERIA” E GLI ATTACCHI DI PIERO AMARA
I dubbi su Piero Amara e la sua attendibilità sono molteplici, alla luce anche del fatto che si è ritrovato nella veste di presunto calunniatore in tre occasioni. Le ricostruisce La Verità, ricordando quando fu vittima delle sue calunnie il giudice Stefano Fava, l’unico che lo voleva arrestare. Interrogato dalla Procura di Roma nel 2018 sulle fonti che gli permettevano di avere notizie sulle indagini a suo carico, fece il nome di Antonio Loreto Sarcina, carabiniere distaccato dell’Aise. Ma questi non era tra coloro che indagavano. A quel punto, disse che Sarcina otteneva notizie da Fava. Ma lui aveva i file delle informative prima che arrivassero ai pm, quindi la sua fonte non poteva essere tra gli investigatori. Sarcina, che fu arrestato e poi interrogato, dichiarò che quelle notizie, che aveva venduto ad Amara per 30mila euro, arrivavano da un dipendente della Procura generale di Roma. Il secondo caso è quello del giudice milanese Marco Tremolada, proprio alla vigilia della sentenza del processo Eni. Il terzo bersaglio è Vincenzo Barbaro, procuratore generale di Messina, il quale ha smentito di aver incontrato Luca Palamara dopo le riunioni di coordinamento nella Procura di Roma.