Sessant’anni fa come stasera esordiva nelle sale cinematografiche americane il film di Stanley Kubrick Lolita, suo quinto lungometraggio professionale – non considerando tale Fear and Desire del 1953, il più conosciuto e probabilmente il migliore tra le opere sperimentali autoprodotte dal futuro genio del Cinema a inizio carriera. Come già accaduto in precedenza (tranne che nel primo, Killer’s Kiss del 1955), e come sarà per tutti gli altri suoi film, Kubrick trae il soggetto di Lolita da un romanzo, e che romanzo. Scritto in inglese dal russo (poi naturalizzato statunitense) Vladimir Nabokov nel 1954, pubblicato in prima edizione in Francia nel 1955, e in Usa solo nel 1958, Lolita vendette oltre quattordici milioni di copie in tutto il mondo. Un successo commerciale dovuto sì al particolare appeal della storia – quella di un uomo maturo che ha una relazione sessuale con una dodicenne -, ma supportato anche dalle indubbie qualità letterarie del testo. Come affermato dallo stesso autore nella celebre postfazione Note su un Libro Chiamato Lolita, con la quale spiega di aver concepito il romanzo secondo i canoni dell’arte per l’arte. Leggerlo per credere.
Kubrick e il fidato produttore James B. Harris ne comprarono i diritti già nel 1959, intuendo le potenzialità della storia, ma imbattendosi subito in svariate difficoltà produttive. In primis quella di adattare un simile romanzo, tutto giocato sulle emozioni e la memoria nostalgica del protagonista, e scritto in prima persona, in un’opera cinematografica, cioè prettamente visiva e con narrazione oggettiva. Problema brillantemente risolto dal regista (e da Nabokov stesso, nel ruolo di co-sceneggiatore) facendo cominciare il film, diversamente dal romanzo, con la scena in cui il professor Humbert (James Mason) uccide il losco commediografo Clare Quilty (Peter Sellers), reo di avergli sottratto l’adorata Lolita. Scelta che permise di meglio focalizzare nel resto del film la scabrosa relazione tra Humbert e la dodicenne figlia della sua padrona di casa Charlotte Haze (Shelley Winters, già moglie di Vittorio Gassman).
Più che un melodramma dai tratti scabrosi – che comunque non mancano – il film diventa allora una sorta di commedia nera, a tratti anche divertente. Una mistura di satira e narrazione dai toni a tratti grotteschi in cui si riscontrano alcuni dei temi portanti dell’intera cinematografia di Stanley Kubrick. Principalmente quello del personaggio afflitto da un’ossessione cui non intende sottrarsi, e che persegue fino alla fine con caparbietà assoluta. Qui l’ossessione è rappresentata, ovviamente, dal travolgente – e fatale – desiderio sessuale che Humbert prova per Lolita, anche se nel film è narrato in maniera sfumata ciò che nel romanzo è molto più esplicito. La quale ossessione, però, diventa anche emblematica di una società, quella americana dell’epoca, ipocrita e malsana sotto la sua coltre di autoimposto perbenismo.
Lolita, in quanto oggetto del desiderio sia di Humbert che di Quilty, è come il maglio che scoperchia la coltre: la rappresentazione che Kubrick fa di tale società, attraverso il personaggio ambiguo e perverso di Quilty, finisce per far apparire il desiderio/sentimento di Humbert per la ragazzina quasi sensato. Ancor più se si pensa al finale, dove il professore, vedendo la sua Lolita incinta e meno attraente, sposata a una giovane squattrinato – e nonostante lei gli riveli di aver sempre amato Quilty -, scopre di amarla come non mai.
Da rimarcare la superlativa prova di Peter Sellers nei panni del viscido Clare Quilty, il commediografo che rapisce Lolita lasciando il povero Humbert disperato e ferocemente avido di vendetta, in cui dispiega un istrionismo per una volta perfettamente funzionale all’intreccio. Come sostiene il critico Enrico Ghezzi “nella satira dell’America espressa nel film, Quilty è la minaccia che incombe, l’ombra inseguitrice, la spia di una società la cui corruzione supera quella delle sue vittime.” Parole che in estrema sintesi dipingono il senso ultimo del film e dei due personaggi speculari che si contendono la ragazzina, nel cui competitivo rapporto è Humbert a riconoscere in Quilty il lato oscuro e perverso di se stesso, e a volerlo quindi sopprimere.
Perfetta nella parte di Lolita la giovanissima Sue Lyon, scelta da Kubrick per la sua naturale innocente sensualità. Performance migliorata dall’intuizione del regista di imporre agli attori la perfetta conoscenza del proprio ruolo nell’intreccio, per poi lasciarli esprimere liberamente improvvisando le battute imparate dal copione. Cosa che funzionò molto bene per la Lyon, che si poté meglio calare nella parte perché – come scrisse Mason nelle sue memorie – “parlava lo stesso linguaggio del personaggio che interpretava”. Divenuta iconica la sua immagine con il lecca lecca a forma di cuore, anche se Lolita di Stanley Kubrick è uno dei film meno erotici che si possano immaginare partendo da un soggetto di tale portata.
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